Frère Luc Dochier, nonostante fosse un monaco di 84 anni – o, forse, proprio per questo – era un uomo al passo con i tempi. Voleva che al suo funerale si facesse suonare la cassetta di Non, je ne regrette rien, quella canzone di Edith Piaf che fa: «Non rimpiango nulla, né il bene che mi è stato fatto, né il male; tutto ciò per me è lo stesso… perché oggi la mia gioia inizia con te».
Il giorno 30 maggio del 1996, nella provincia algerina di Médéa, furono ritrovate le teste decapitate di sette trappisti del monastero di Tibhirine, rapiti due mesi prima dai terroristi appartenenti al famigerato gruppo del GIA. Tra loro c’era frère Luc. I monaci appartenevano alla comunità di Notre Dame-de-l’Atlas, all’epoca unica presenza trappista in terra non cristiana. La loro storia è stata raccontata in Uomini di Dio, un film del 2010 che ha avuto un inatteso successo di critica e di pubblico, girato da Xavier Beauvois.
La morte non aveva colto impreparati i monaci. La situazione attorno alle montagne dell’Atlas era diventata infuocata da quando, nell’ottobre del ‘93, i militanti del GIA avevano lanciato minacce di morte a tutti i cristiani presenti in territorio algerino. I primi a cadere erano stati il padre marista Henry Vergès, bibliotecario in un liceo della casbah di Algeri, e la piccola sorella dell’Assunzione, suor Paul-Hélène Saint Raymond; poi le suore spagnole Ester e Caridad, quattro Padri Bianchi di Tizi-Ouzou, le suore Bibiane e Angèle-Mary e tanti altri. Era cominciata così la lista dei martiri algerini, un elenco tanto lungo da far esclamare ai monaci di Tibhirine: «Il cielo trabocca di nostri amici!»
Alla vigilia di Natale del ‘95, i terroristi fecero irruzione armati nello stesso monastero di Tibhirine, chiedendo di vedere il “papa” – forse cercavano il priore frère Christian – e rivolgendo pesanti minacce. Per la comunità cristiana, dunque, erano tornati i tempi della persecuzione. E i monaci trappisti cominciarono allora a interrogarsi sull’opportunità di lasciare l’Algeria; pensavano che forse la Chiesa ha più bisogno di monaci che di eroi. Mentre però discutevano in proposito, si sentirono interrogati dalle parole del Signore: «Volete andarvene anche voi?» I trappisti di Notre Dame-de-l’Atlas vollero dare a questa domanda la stessa spontanea risposta data da Pietro. Del resto, in quale altro posto può andarsene un monaco, se non là dove la sua vocazione lo conduce?
I monaci di Tibhirine si avviarono dunque sulla via del Golgota tracciata da Gesù. Senza risentimento. Come diceva la canzone di Edith Piaf preferita da frère Luc: «Non rimpiango nulla, né il bene che mi è stato fatto, né il male; tutto ciò per me è lo stesso». Erano convinti che il martirio unisca misteriosamente il bene e il male; perché dicevano che Cristo ha stretto vicino a sé, sullo stesso Calvario, il ladrone buono e quello cattivo. Può sembrare, questa, un’ingenuità; e di questo ne era consapevole il priore frère Christian che scriveva nel suo testamento: «Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze».
Consapevoli del destino che li attendeva, la cosa che impensieriva di più i monaci non era tanto la morte, quanto la cura del giardino del monastero. Nel suo ultimo viaggio in Francia, uno dei monaci, frère Paul Favre-Miville, non aveva invocato un sostegno dalla comunità internazione, non aveva denunciato le minacce cui erano sottoposti lui e i suoi confratelli, né gli orrori del terrorismo algerino. Aveva chiesto soltanto che gli dessero delle vanghe per coltivare la terra e delle piantine di faggio da mettere a dimora nel giardino. Tibhirine, in arabo, significa infatti giardino. E quei monaci trappisti, con la loro comunità, non volevano altro che essere un giardino nel mondo dell’islam.
Per noi in Occidente, forse, non è facile comprendere. Ma i fratelli arabi hanno capito benissimo il significato di quella presenza cristiana lì, a Tibhirine – il giardino. Ha scritto una donna musulmana: «Nostro compito è quello di continuare il cammino di pace, di amore di Dio e dell’Uomo nelle sue differenze. Nostro compito è innaffiare i “semi” affidatici dai nostri fratelli monaci affinché i fiori crescano un po’ ovunque, belli nella loro varietà di colori e profumi».
I corpi dei sette martiri di Tibhirine riposano adesso nel giardino del monastero, piantati come il seme che quando arriverà il tempo germoglierà. Sono stati l’inizio di un’amicizia tra cristiani e musulmani, tra uomini diversi. Ma è una diversità dalla quale scaturisce una vita nuova e felice. Come recita la canzone: «Tutto ciò per me è lo stesso… perché oggi la mia gioia inizia con te».
Nel monastero di Tibhirine, oggi, non c’è più la comunità dei monaci trappisti. Ma il monastero è ancora miracolosamente vivo. «I colori caldi dell’autunno» scrive Anna Pozzi sul quotidiano Avvenire il 18 novembre 2013, «avvolgono in un abbraccio rassicurante il monastero di Tibhirine, dopo un’estate particolarmente lunga e secca che ha ricoperto di pennellate d’ocra l’intera valle. È una stagione di passaggio, questa, per il monastero algerino, segnato dal rapimento e dall’uccisione di sette monaci trappisti tra marzo e maggio del 1996. E non solo da un punto di vista meteorologico. Gli effetti benefici del film Uomini di Dio, che ha risvegliato l’interesse e moltiplicato le visite, sono stati rinvigoriti negli ultimi tempi da iniziative di singoli e gruppi che, sulle orme dei monaci, hanno ritrovato la strada dell’Atlante algerino, verso un monastero che vive di vita nuova. Senza monaci, certo, ma con lo stesso spirito di accoglienza e apertura. È soprattutto grazie alla presenza di padre Jean-Marie Lassausse che questo monastero continua a rappresentare un punto di riferimento per la Chiesa d’Algeria e per quella universale, per la popolazione del posto e per i pellegrini di tutto il mondo».
Ma, fedele alla storia dei monaci trappisti di Tibhirine, padre Jean-Marie Lassausse si prende cura soprattutto dei 2400 alberi del giardino. Quest’anno è stata una vera benedizione: 20 tonnellate di frutta raccolta. Dio ha voluto benedire i semi del martirio dei sette monaci. Ed ecco i frutti.
Negli ultimi tempi il mondo si domanda se ci sarà mai una primavera nel mondo arabo, sempre scosso da tante violenze. Questa speranza sembra essere stata delusa tante volte. Ma bisognerebbe andare a Tibhirine. Qui non si rimarrà delusi. Qui, in questo bellissimo angolo dell’incantevole mondo arabo, si può vedere con i propri occhi la vera primavera.