Immaginate per un attimo i Black Sabbath senza Ozzy Osbourne…ok, ho sbagliato ipotesi… immaginateli anche senza Ronnie James Dio, Ian Gillan, Glenn Hughes, Tony Martin e di passaggio Rob Halford…
In poche parole ho iniziato il mio articolo nel peggiore dei modi. I Black Sabbath senza Ozzy, sono riusciti a sopravvivere più che onorevolmente.
Quello che però è inimmaginabile è se questa band sarebbe mai riuscita ad arrivare al successo senza i comportamenti eccessivi del loro primo frontman. Questo intendevo chiedere al lettore, sin dalla prima frase. Oggi sembrerà anche un imbecille ma, in quel contesto, l’approccio di Ozzy era senz’altro innovativo. Mi spiego con un paragone: Vasco oggi è patetico, negli anni ’80 lo era molto meno, o quanto meno lo era quanto quella generazione. Ma oggi non voglio scrivere un articolo di contestualizzazione fondato sulla figura di Mr. Osbourne. Intendo porre il riflettore sui Black Sabbath come band che, seppur premiata in notorietà sulla base delle performance del pazzo (o finto-tale) vocalist, ne è stata sicuramente danneggiata nell’immagine più tecnicamente musicale.
Farà impressione a parecchi leggere che Iommi e comitiva erano assolutamente colti in campo musicale. Beh, nei fatti è proprio così. A meno che si voglia considerare la musica classica europea e la jazz-fusion di quei tempi, come musica di bassa levatura. Voglio cominciare cronologicamente dal loro primo rudimentale ed omonimo album. Un lavoro pieno di brani interessanti, in cui – in nuce – c’è già tutto quello su cui poi si dilungheranno.
L’armonica d’apertura di The Wizard è programmatica: si tratta di un pezzo estremamente bluesy – e non è mica una novità nelle terra d’Albione, da un bel pezzo – eppure le dinamiche sono estremamente diverse dai soliti stilemi di scuola Cream. Il tempo della batteria lascia benevolmente perplessi, ma è proprio l’approccio ad essere più complicato (o complicante). E non è un caso se certa critica comincia a dire che i già famosi Led Zeppelin vogliono somigliare troppo a questa nuova band.
Poi una improvvisazione di basso su linee jazzy-blues, precede il riff storico di N.I.B. C’è tanta classe in questo pezzo, è difficile non rendersene conto. È Rock, ma non è il solito rock! Da due minuti e cinquanta comincia l’assolo di chitarra e non si può non far riferimento alla musica colta europea, per come il tutto è perfettamente orchestrato. Brian May (i Queen non hanno mai negato le forti influenze sabbathiane) apre il blocnotes e comincia a prendere appunti. Ma è sempre il basso a dare l’idea che ci sia qualcosa di estraneo a tutto quello che era stato suonato fino a quel momento in area rock. No, i Sabbath non erano di certo i soli, ma di sicuro sono gli unici di cui non si è mai parlato in tal senso.
L’anno successivo esce Paranoid, che è forse il più grande contenitore di riff che abbia mai avuto in dono l’umanità musicante. Se cercate bene troverete qualcosa di questo album in qualunque artista voi ascoltiate: da Madonna a Ciccid’alescio!
War Pigs, ad esempio, ed il tempo jazz della batteria. Assolutamente geniale, una mistura di heavy ante-litteram coniugata a modalità jazz. I riff e gli intrecci di chitarra di Iommi sono tutti ampiamente jazz-oriented nel loro essere sincopati. Non è il momento per dilungarmi nello spiegare come il finale di questo brano sia una delle cose più pomposamente e aureamente rock mai ascoltate, dunque vado avanti: se la cosa non vi risulta ancora chiara, andiamo oltre e passiamo a Planet Caravan dove è proprio la struttura e l’approccio ad essere vagamente latin-jazz. Iommi a due minuti e trenta inizia un assolo orgasmico, in piena coerenza con quanto ho detto poc’anzi. Il suono soffuso, il tocco sinuoso ed il fraseggio articolato di un consumato chitarrista fusion di area latina, mentre una ritmica placidamente santanista (e non satanista ) fa da tappeto. Ora siete convinti di quanto dicevo? Non basta? Allora andatevi ad ascoltare il giro di basso di Hand Of doom e ditemi se non somiglia a qualcosa della Mahavishnu Orchestra (link alla famosa Birds Of Fire). Io non volevo tirare in ballo questa seminale band, ma a questo punto voi mi costringete, eh!
Il pezzo dei Sabbath, con i suoi continui cambi (cosa comune a molti pezzi della band), va ben oltre il prog, per andare ad afferrare proprio quel jazz-rock di matrice davisiana di cui alfieri erano l’Orchestra di McLaughlin.
E Rat Salad (link)? Poco prima che scocchi il minuto la band di Ozzy se ne va in una fuga degna dei più seri musicisti fusion dello stesso periodo (Corea, Return To Forever e compagnia bella), solo un po’ più cattivelli.
Nel ’71 esce Master Of Reality e il suono più dark-heavy prende un po’ più il sopravvento sulle influenze fusion. Ma basta ascoltare il grandioso giro di basso d’apertura di Into The Void (link) per rassicurarsi: non si è ancora rinnegato nulla. Poi il finale sconfina persino in un hard-funky-jazz che non ti aspetti.
L’album successivo (Vol. 4) è colmo di pezzi fantastici. Servirebbero pagine e pagine di word per poterne parlare, ma la microsoft ha imposto un blocco al mio software, dunque mi limiterò solo a citare Tomorrow’s Dream, l’avveneristica FX (Davis ne sarebbe stato orgoglioso, almeno quanto lo sarà sicuramente John Zorn), Supernaut (link) (anche se il jazz non c’entra niente, ascoltate le chitarre e ditemi se non ci sentite Brian May) con una parte ritmica da far impallidire i coltraniani del rock.
Del ’73 è Sabbath Bloody Sabbath, album capolavoro assoluto. A National Acrobat (link) è un pezzo da infarto, non solo per il riff iniziale (perfetto), ma quando a 2.17 degli stacchi densi di wha-wha interrompono il fluire ipnotico del brano, ci si deve per forza render conto della grandezza di questa band. Ozzy canta più sornione del solito ed il pezzo non può che goderne. Il finale è di una magnificenza gloriosa che solo certe cose dei Genesis o dei Queen riescono a raggiungere.
Devo ripetere tutto quanto ho appena detto o mi credete sulla parola se vi dico che Sabra Calabra (link) segue le stesse orme? Pezzo sorprendente sino in fondo, da ascoltare trattenendo il fiato…
Spiral Architect (link) invece è il pezzo meno conosciuto dell’album, un vero peccato (mortale). Orchestrale e sinfonico, inaspettato. Da venerare!
Il ’75 è l’anno di Sabotage, altro album da voto pieno. Ma è forse il lavoro con meno influenze fusion, dunque esula dal tema di questo articolo. Vi segnalo solo l’ascolto della meravigliosa The Writ (link), Hole In The Sky (link), l’ancora una volta classicheggiante Supertzar (link) (superbamente perfetta) e per puro interesse filologico la pesantissima Symptom Of The Universe (link) (altro che Sepultura).
L’anno dopo tocca a Technical Ecstasy, album particolarissimo (scompaiono i toni cupi sin dalla copertina, quasi inspiegabilmente sul tenore bianco), che inaugura la crisi più grave all’interno della band. L’album suona un po’ troppo alla Queen…nel senso che adesso non sono più Freddie & Co. ad imitare i Sabbath, ma viceversa. Anche in questo caso non c’è motivo per dilungarmi, poiché andrei fuori argomento.
Nel ’78 esce l’ultimo album con Ozzy, Never Say Die, ed è il più ingiustamente sottovalutato dell’intera carriera dei Sabbath. Si parla addirittura di tradimento, a sproposito. L’album è lontanissimo dai Black Sabbath più dark-metal degli esordi – siamo d’accordo – ma è un tripudio di ottime sonorità, di qualità dei brani e di tecnica. Inoltre, se prima c’erano delle influenze vagamente jazzy o fusion, adesso è proprio il jazz più classico ad intervenire come un pugno in faccia, nel bel mezzo di granitici pezzi di hard rock! Cose che, in merito a questo album – vi sembrerà assurdo – mi fanno dichiaratamente ammettere di essere un appassionato della prima ora. Never Say Die è il mio album preferito (forse tra i miei preferiti in assoluto, tra tutti quelli presenti nella mia discoteca), senza alcun dubbio. Esempi?
Devo purtroppo saltare per forza (soliti motivi) lo splendido hard rock della title track (link) e di Johnny Blade (link) per passare alla groovosissima Junior’s Eyes (link): è ancora il giro di basso del mitico Geezer Butler a dare le direttive, ma la batteria di Ward è assolutamente coinvolgente. Da gustare come una bevanda selz mandarino verde e limone in pieno agosto!
Gli accordi pieni come un rinoceronte al forno ripieno di peperoni giganti di Hard Road (link) e l’assolo di Iommi sono l’ennesimo vagheggiamento hard soul di questa band intenzionata a rinnovarsi e dimostrare di essere anche altro.
Quando arriviamo ad Air Dance (link) i Sabbath decidono di giocare a carte scoperte e dopo un avvio melodicamente heavy (i Thin Lizzy faranno scuola con cose del genere), prendono il largo verso un infinito e placido oceano jazzy. No, è vero, non sembrano i Black Sabbath, soprattutto con quel piano che improvvisa in sottofondo. Ma il cambio di tempo con gli inserti di chitarra sono da farti gridare al miracolo. Ecco come una band non si rinnega, ma si rigenera. A 3.55 succede l’impossibile e i Black Sabbath sembrano gli Steely Dan più classici: il batterista va sulle bacchette e Iommi ispiratissimo inscena uno dei soli più jazz che abbia mai eseguito.
Il disco si conclude su queste tonalità, proseguendo con l’ennesimo hard soul, la magnifica Over To You (link), pezzo che si fonda su ben precise conoscenze musicale in ambito sia jazz che pop.
L’estremo lo si raggiunge con Breakout (link), pezzo hard che più hard non si può, eppur dotato di sezione fiati e assolo di sax. Una vera goduria. E adesso vediamo chi ha il coraggio di bollare come ignoranti questo gruppetto di finti o veri satanisti…ma sicuramente ottimi musicisti!?!
I fan più chiusi mentalmente non capiscono l’importanza della svolta e mandano il progetto a gambe all’aria. Never Say Die è bocciato (continua ancora oggi ad esserlo per la critica maggiore…poveretti, ignoranti!!!) e Ozzy se ne va.
Da lì comincia un’altra – altalenante – storia. In ogni caso i Sabbath non saranno più la stessa cosa.
Alla prossima.
Babar da Celestropoli