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Gli affezionati lettori che seguono questo blog avranno sicuramente notato la prolungata assenza dei miei post: come già detto sull'altro mio blog, l'uscita di scena di Berlusconi dalla vita politica del Paese aveva creato in me una sorta di paradossale vuoto, di mancanza di stimoli, di rigetto nel cercare ancora notizie o quant'altro riconducibile alla figura del cavalier Pompetta. Mi ero oramai rassegnato, forse anche perchè un pò deluso da me stesso nel non aver voluto scrivere una sorta di necrologio sull'opera omnia del Caimano. Ma adesso, sfogliando organi di stampa e altro, quasi per miracolo mi è tornata la voglia di fare l'ultimo inciso, la pennellata finale sul quadro che in questi sei anni di articoli e vignette avevo diligentemente tratteggiato e così, quasi casualmente mi sono imbattuto in uno scritto di un giornalista (Francesco Cundari, uno che non si considera un giornalista di sinistra ma una persona di sinistra che fa il giornalista) che su l'Unità dell'altro ieri ha praticamente anticipato quanto avrei scritto se non fossi stato troppo pigro o troppo intorpidito dalle molteplici righe che in passato avevo dedicato al Pifferaio di Arcore. Ripropongo, ergo, ai miei lettori questo splendido ritratto di Cundari sull'uscita di scena di Berlusconi. Vi avverto, il pezzo è abbastanza lungo, ma francamente vale proprio la pena leggerlo interamente. Alla prossima.Avversari e detrattori immaginavano per lui un tramonto fiammeggiante, un'uscita di scena drammatica, come nel finale del Caimano. Seguaci e ammiratori (a cominciare dal più convinto e appassionato tra loro, se stesso) confidavano al contrario nell'apoteosi della sua ascesa al Quirinale, la consacrazione che avrebbe pacificato l'Italia sotto il suo sorriso benevolo. Nessuno aveva mai pensato nemmeno per un minuto che Silvio Berlusconi avrebbe lasciato Palazzo Chigi quasi di soppiatto. E soprattutto, fatta eccezione per qualche sparuto gruppo di manifestanti occasionali, nella generale indifferenza. Eppure finisce proprio così. Le sue dichiarazioni di ieri, in cui assicura i suoi sostenitori di essere sempre "in pista", fanno sorridere. Quando ripete ancora che serve una riforma istituzionale per rendere "governabile" l'Italia irrita come una barzelletta raccontata troppe volte. La verità è che per Silvio Berlusconi non c'è più nessuna pista, nè alcun campo in cui scendere. L'uomo che ha segnato più di chiunque altro l'ultimo ventennio della politica italiana esce di scena così: salutato in Europa dalle risate di scherno dei capi di governo francese e tedesco, nel mondo dall'ostilità di un presidente degli Stati Uniti che si rifiuta platealmente di nominarlo e in patria da un silenzio indifferente e annoiato. E' la pietra tombale su ogni velleità di riscatto. A Silvio Berlusconi è capitata la cosa peggiore che potesse capitargli, e che per tanti anni aveva tentato in ogni modo di scongiurare: è diventato vecchio. Da un giorno all'altro, come per il venir meno di un incantesimo, la sua figura politica è diventata anacronistica. Le sue mosse appaiono fuori tempo, le sue dichiarazioni fuori tema, le sue battute fuori luogo. In poche parole: ha stancato. E' passato poco più di un mese dalle sue dimissioni. Eppure, a ripercorrere quelle convulse giornate di inizio novembre, sembra di parlare di un'altra epoca. Forse perchè è proprio così. Il culmine del potere berlusconiano porta per comune accordo una data precisa: 25 aprile 2009. Il giorno in cui il premier celebra la festa della Liberazione a Onna, la città distrutta dal terremoto del 6 aprile. Gli scandali e le polemiche sull'uso politico della Protezione civile sono lontanissimi: il governo del fare, che ha ripulito Napoli e assicurato un ricovero a tutti i terremotati, viene esaltato a reti unificate. Le riprese televisive dei funerali delle vittime, con il presidente del Consiglio che lascia il suo posto tra le autorità per mescolarsi alle famiglie, fanno il paio con le immagini dell'anziana signora cui il premier ha ricomprato la dentiera smarrita nella catastrofe. Nel discorso di Onna Berlusconi parla già da presidente della Repubblica. I suoi indici di popolarità sono alle stelle. I commentatori si inchianano. L'apoteosi è a un passo. Poi qualcosa s'incrina. Il primo problema è che dopo il 25 aprile, a Onna, viene il 26, a Casoria: il diciottesimo compleanno di Noemi Letizia. Quindi le sconcertanti dichiarazioni di Veronica Lario, che denuncia le frequentazioni di minorenni da parte di un premier malato, dal quale si appresta a chiedere il divorzio. E' un fulmine a ciel sereno. Lo svolgersi imprevedibile e rapidissimo degli eventi è ben rappresentato dal modo in cui Bruno Vespa lo accoglie, il 5 maggio, a Porta a Porta. "L'avevamo invitata nei giorni scorsi - esordisce - perchè domani fa un mese dal devastante terremoto che ha colpito L'Aquila e tanti centri dell'Abruzzo, per fare il punto della situazione, ma in questi giorni lei è sui giornali anche per altre ragioni e quindi è fatale che si cominci da questo. S'aspettava questa tempesta sulla sua vicenda familiare?". E' questo il primo masso a staccarsi dal blocco di consenso berlusconiano, e rotola a valle con crescente velocità. A partire dalle parole di Veronica Lario, trascina con sè le polemiche sulle candidature alle europee, che si estenderanno dalla Lombardia del caso Minetti alla Puglia del caso D'Addario. Di qui i primi attacchi dei finiani contro il "velinismo", la violenta risposta della stampa berlusconiana contro Fini, fino alla rottura finale tra i due, in un'inarrestabile corsa verso il basso. L'apparente tenuta alle regionali del 28 marzo 2010 non fa che prolungare l'agonia. E neanche di molto: alla direzione del 22 aprile il Pdl esplode davanti alle telecamere, con Berlusconi che chiede dal palco le dimissioni di Fini da presidente della Camera e lui che risponde dalla platea: "Che fai, mi cacci?". Come sempre nell'avventura politica di Berlusconi, questioni politiche e personali s'intrecciano inestricabilmente. Contano umane debolezze (per dir così) e personali insofferenze. Da tutto questo emerge però non solo un criterio di selezione delle candidature, ma più in generale un modo di gestire il potere. Il processo pubblico in direzione e la campagna di stampa contro Fini mandano un messaggio inequivocabile sulla concezione della democrazia di quello che appare come l'uomo più potente d'Italia. E' l'altra faccia, quella meno rassicurante, del modello antipolitico che Berlusconi ha incarnato per vent'anni. Un'idea di democrazia incentrata sulle esigenze della "governabilità", nella convinzione che ogni contrappeso, ogni manifestazione di dissenso all'interno del governo o del partito sia un tradimento, una congiura, un complotto. Quando però l'intolleranza del capo mostra la sua faccia più brutale, incapace di di tollerare persino la modestissima fronda finiana, la reazione di rigetto è inevitabile. Tanto più che a questo strapotere, che governa per quasi tutto il decennio, non si accompagnano risultati apprezzabili. La crisi, occultata dalla propaganda, morde la carne viva dell'Italia. Il bilancio del decennio, dal punto di vista economico e sociale, è una spaventosa stagnazione. E le prospettive per il futuro non sono migliori. Il modello politico-istituzionale incentrato sul capo carismatico mostra al tempo stesso i suoi inquietanti limiti democratici e la sua clamorosa inefficienza operativa. Dopo la scissione finiana e la risicata fiducia del 14 dicembre 2010, la tragedia si trasforma in farsa. Il governo del fare affonda in una palude di compromessi paralizzanti, con un corteo di leader improvvisati a capo di formazioni dai nomi improbabili. I risultati dei referendum e delle amministrative di Milano e Napoli certificano la fine del berlusconismo. Ma i meccanismi istituzionali e la stessa costituzione del partito personale-proprietario consentono al fantasma del leader di continuare a occupare la scena, pur non essendo più in grado di prendere alcuna decisione, come è ormai evidente a tutti, non solo in Italia. Quando mercati finanziari e capi di governo europei presentano infine il conto, l'esperienza politica berlusconiana è giunta ormai a un tale grado di consunzione da non avere più nemmeno bisogno del colpo di grazia. Silvio Berlusconi non viene scacciato da una rivolta popolare, ma semplicemente rimosso dalla coscienza pubblica, come un peccato di gioventù. E questo forse è il motivo per cui oggi, mentre tutto il Paese paga il prezzo di quel peccato collettivo, le sue rare apparizioni televisive fanno più tenerezza che rabbia, come quei canali che la sera trasmettono ancora telefilm anni 80. Fa l'effetto di una vecchia puntata di Arnold, che magari abbiamo trovato esilarante in passato, ma che vista adesso, dopo pochi minuti di nostalgia, si rivela subito noiosissima.
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