Quando sentite dire che il nostro è un paese melodrammatico non protestate… stanno dicendo la verità! Ciò che è avvenuto in ambito artistico nell’Ottocento, in concomitanza con l’unità d’Italia, ha impressionato e influenzato il costume del nostro paese lasciando tracce e residui dappertutto. Il melodramma, o opera lirica se preferite, ci ha fatto conoscere in tutto il mondo, ci ha caratterizzato come un popolo molto passionale e, fondamentalmente, molto superficiale. La deriva veristica della letteratura e della musica nazionale ha condizionato il nostro XIX° secolo e buona parte del XX°, ha scoraggiato e vilipeso la creatività fantastica, considerata un vizio, un’anomalia da combattere e scongiurare. Per un secolo, dal 1861 in poi, gli italiani hanno appreso la lingua attraverso i libretti d’opera e l’ascolto delle canzoni, poco a scuola o quasi nulla dalla letteratura accademica. I risultati sono evidenti. La lettura dei libri si è circoscritta a un élite, la diffusione della produzione artistica ha subito un orientamento ben preciso e tutto ciò che sapeva di insolito, di eccezionale, veniva regolarmente confinato. Il melodramma verista è la sintesi di questo programma “politico” estetico. Con le vicende narrate nei libretti d’opera e rappresentate a teatro si istituiva un costume, si suggeriva una morale. La lingua parlata-cantata aveva pochi meriti artistici, era al di sotto dello standard raggiunto dai grandi autori come Alfieri, Foscolo, Leopardi (su Manzoni ci sarebbe da aprire un altro discorso che qui non mi sento di affrontare), pertanto ha finito per danneggiare la creazione di un lessico diffuso e comune. Soltanto la televisione negli anni ’50 del Novecento, ben più della radio già presente da trent’anni, è stata in grado di unificare un linguaggio fino a poco tempo prima parcellizzato.
Ma cosa avrà mai di così negativo la lingua del melodramma verista? Portiamo un esempio. Ne I Pagliacci di Ruggero Leoncavallo la vicenda è un cliché più o meno seguito in altre opere, ossia il tradimento sentimentale che determina la tragedia e la morte di chi tradisce. Il protagonista, Canio, non cerca minimamente di capire i motivi per cui una persona, la “sua” donna Nedda, lo ha tradito con un certo Silvio, però si sente in dovere di “riparare” l’orgoglio ferito con la soppressione della poveretta, rea di non amarlo più. Nell’ultima scena dell’Atto Secondo Canio mischia teatro e vita trasformando la commedia in una strage e condanna Nedda con parole inequivocabili: “Ma il vizio alberga sol nell’alma tua negletta: / tu viscere non hai… sol legge è ‘l senso in te… / Va, non meriti il mio duol, o meretrice abbietta, / vo’ ne lo sprezzo mio schiacciarti sotto i piè!…”. Non c’è spazio per la replica di Nedda che, di lì a poco, verrà uccisa. Bene, questo è un esempio, tra tanti, di come linguisticamente e non solo si sia uniformata la popolazione italica. I versi di Leoncavallo sono funzionali alla musica, non v’è dubbio, però la loro portata emozionale ha un valore che va oltre la semplice qualità del testo. Anche Illica e Giacosa, autori dei libretti di Giacomo Puccini, appartenevano a un certo “sentire” e confezionarono parole, frasi, versi che tanto hanno suggestionato l’immaginario collettivo. La lingua e i personaggi del melodramma verista sono riusciti a plasmare il costume italiano, mentre in altri paesi europei si stava dando vita a ben altra produzione artistica. E così ci hanno visto come quelli del melodramma, ci hanno confuso, non senza torto, con i caratteri esotici dei vari Canio, Turiddu, Cavaradossi, Mimì, etc., etc.. In fondo, a vedere le ultime vicende della nostra politica, della nostra economia e anche della nostra televisione cosa ci viene in mente se non i fumettoni veristi dell’Ottocento imbellettati e un tantino tecnologizzati?
Nella bagarre melodrammatica ho risparmiato Verdi, l’unico vero artista di respiro europeo che abbiamo mai avuto in uno dei tanti, troppi periodi provinciali dell’Italietta…
© Marco Vignolo Gargini