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È una piccola città

Creato il 03 ottobre 2010 da Fabry2010

È una piccola città

Il campanello stava suonando ma io li avevo visti scendere dalla macchina già diversi minuti prima. Dall’inizio della mattinata mi tenevo in equilibrio col mento appoggiato al davanzale e un modellino di Hot Wheels tra le mani ad aspettare che arrivassero.
Mia madre non usciva dalla cucina che erano ore, il forno non aveva smesso un istante di funzionare, i fornelli di bruciare, gli aspiratori di aspirare, pareva la cena di gala di due ambasciatori.
Loro discutevano mentre camminavano. Sorridevano, e annuivano, e si scambiavano pacche sulle spalle. E intanto camminavano. Vestivano entrambi jeans chiari e camicie colorate.
Al secondo squillo di campanello mia madre aveva detto “Qualcuno vada ad aprire.”
Ed era andato mio padre. Eccoli allora: mio padre, il fratello più giovane di mia madre e il suo amico. Attraversare il corridoio in fila e affacciarsi alla porta della cucina e dire siamo arrivati.

Mio zio era molto tempo che non lo vedevo. Mia sorella più piccola, addirittura, lo conosceva a malapena. Era tornato in città solamente per pochi giorni e solamente – così almeno diceva la gente – di passaggio.
La gente alle volte parlava di mio zio, parlava di lui e di quello che era, parlava di quello che faceva, anche se nessuno sapeva esattamente di cosa si trattasse.
“È insegnante” diceva ogni volta mamma. Ma anche mamma sapeva che era ad altro che la gente si riferiva, quando parlava di ciò che lo zio faceva.
Il suo amico invece non l’aveva mai visto nessuno prima d’allora. Mamma ci aveva spiegato che era un clarinettista. Mamma aveva detto che faceva parte di una grande orchestra, e che magari a fine serata avrebbe suonato qualcosa anche per noi.
Li avevo visti arrivare con in mano borse da negozio e piccoli pacchi, ma niente clarinetto. Ne ero rimasto deluso.
A me avevano portato una postazione d’astronomia con touch screen per ragazzini dai dieci ai tredici anni – mi ero domandato come facesse lo zio a sapere che mi piacevano le stelle, “forse mamma lo ha avvertito” avevo pensato. Lui mi aveva risposto che lo sapeva perché “a undici anni tutti i ragazzini sono affascinati dallo spazio” – mentre a mia sorella era toccato un gioco-interattivo per costruire modelli di vestiti per bambole.
“Questi, qui, non si trovano ancora” aveva detto consegnandoceli.
Noi non avevamo mai visto niente del genere.
“Carlo!” Lo aveva chiamato mio padre. “Vieni che facciamo un brindisi.”
Io e mia sorella avevamo guardato lo zio e Anthony andare in soggiorno e alzare i bicchieri sopra il tavolino insieme ai miei genitori.
“Benvenuti” aveva detto mia madre con la voce di un tono più alta del normale.

Come erano finiti sull’argomento non lo ricordo. Ricordo però che sia io che mia sorella eravamo rimasti in silenzio ad ascoltarli, con l’impressione che tutti quanti (tutti tranne Anthony naturalmente, che non capiva una sola parola d’italiano e fin dall’inizio della cena non aveva fatto altro che mangiare, annuire, e sorridere) si fossero d’un tratto dimenticati della nostra presenza.
Lo zio aveva detto qualcosa tipo “anche per questa ragione me ne sono andato.”
Già da tempo gli antipasti appartenevano alla cronaca della serata e si apprestavano proprio in quel momento a divenire storia. Stavamo per consegnare agli archivi anche l’agnello arrosto, specialità di famiglia.
“È un piccolo paese, lo sai” aveva detto papà.
“È più di un paese, Mario. È una città. Piccola, ma città”
“Qualcuno vuole altre patate al forno?” Si era messa a dire mamma.
“La verità è che qui tutti cercano sempre di non affrontare il nocciolo delle questioni. Tutti si dedicano a girarci attorno, alle questioni” aveva continuato zio Carlo. “Ad accarezzarle. È così che ogni cosa si trascina per anni…”
Mamma era tornata a distribuire cibo.
“… Ed è anche per questo che la gente è così ignorante. Guai ad aprirsi al mondo. Tutti chiusi nel loro orticello, a ristrutturare la terza casa. Che poi è l’unica cosa che davvero possiedono insieme alla macchina.”
“Momento momento momento. Non mi pare che le cose stiano esattamente così” lo aveva interrotto mio padre.
“Anthony?” era intervenuta mamma “più potetos?” Aiutandosi con le mani a indicare l’atto di mangiare.
“Ma sì che le cose stanno così, dai” aveva detto zio Carlo. “L’Italia sta diventando senza accorgersene un paese del secondo mondo. Possibile che nessuno lo voglia ammettere?”
Anthony non la smetteva di osservare con timore le patate. Sorrideva a mamma, e intanto lanciava occhiate in cerca di un aiuto che pareva non sarebbe arrivato.
Chini sul piatto, io e mia sorella sembravamo rifugiati in attesa d’essere espulsi.
“Se si dà retta a quello che scrivono i giornali…” aveva detto papà pulendosi la bocca. Ma zio Carlo non lo aveva lasciato finire.
“È esattamente per questo che lo dico. Se dessi retta ai giornali direi che siamo la sesta, o la settima, o l’ottava potenza mondiale. Direi che siamo una delle più forti economie del mondo. La verità è che siamo arretrati e che il gap è ampio. Soprattutto la società, Mario. La società italiana si è imbarbarita. Mentalità chiusa. Stagnante.”
“La crisi ha attaccato tutte le economie…” aveva detto mio padre.
Mio padre sosteneva che il Paese stava affrontando un periodo difficile e che una volta superato il momento ci sarebbe stata la ripresa. Sosteneva che eravamo una nazione ricca, fatta di città d’arte e di cultura. La società italiana era solo provata dagli eventi. Zio Carlo non concordava. Zio Carlo diceva che l’Italia non produceva più alcuna cultura, “neppure culinaria”, e che eravamo la retroguardia dei paesi sviluppati. Sosteneva che c’erano scelte che davano risultati a corto termine, e altre che davano risultati a lungo termine, e che l’Italia aveva sempre optato per quelle a breve.”
“Te lo dico io cosa è successo” aveva cominciato a dire. “Negli anni settanta, quando dovevamo decidere su cosa investire veramente il futuro della nazione, abbiamo scelto l’edilizia. Alcuni paesi si sono buttati sull’elettronica, sulla tecnologia, sulla ricerca. Cose che pagano nella distanza. Noi abbiamo scelto il cemento. Costruire per poi rivendere. E poi costruire di nuovo. Abbiamo così cominciato a divorarci, divorando l’unica ricchezza che davvero ancora ci restava, il territorio. Siamo il primo Paese al mondo produttore di cemento, lo sai? E il secondo consumatore dopo la Cina. Il cemento è il settore che trascina l’economia, dicono alcuni. La verità è che l’unica cosa che l’edilizia italiana ha creato negli ultimi quarant’anni sono milioni di metri cubi di proprietà da lasciare vuoti o da riempire in un secondo tempo con alta tecnologia estera. Schermi ultrapiatti in cui vedere film con effetti speciali stranieri, giochi per i nostri figli che qualcun altro ha pensato e realizzato per loro. Così alcuni paesi crescono, si reinventano, si rinnovano. Altri invece ristagnano.” Si era preso una pausa, aveva finalmento lanciato quell’occhiata di supporto ad Anthony. “Qui è tutto fermo da decenni, Carlo. Prendi questa cittadina. Era più viva e dinamica negli anni settanta di quanto lo sia adesso. La gente in quegli anni perlomeno ancora sperava.”
Mio padre taceva. Vedevo mamma osservare le patate indecisa sull’opportunità o meno di forzare un ennesimo giro di bocche. C’erano ancora l’insalata, i formaggi, la frutta, il gelato, il caffé, il lemoncello. Anthony non aveva capito nulla di quanto si stava dicendo, ma pareva contento di essere rimasto escluso dalla conversazione.
Papà a questo punto aveva introdotto la carta “porto turistico”. Era ciò di cui tutti in quel periodo stavano parlando. Il grande progetto per rilanciare l’economia della città.
“Che bella idea originale” aveva detto zio Carlo. “In tutta Italia non stanno facendo altro. Costruire porti turistici. Gettare un altro po’ di cemento nel mediterraneo, grandioso. Mancano le scuole, quelle che ci sono cascano a pezzi, mancano i fondi per le biblioteche, le librerie, le connessioni internet. Nessuno legge libri, l’informazione annaspa, il settore della ricerca è scomparso, l’università brancola nel buio, niente risorse da investire nella medicina, nell’elettronica, nell’industria, anche cinematografica, quella praticamente non esiste più… E noi cosa facciamo? Costruiamo porti turistici. Progetti da milioni di euro. Più porti, più edilizia, più cemento. Ecco su cosa si basa l’economia di questo paese.”
Lo zio Carlo aveva scosso la testa.
“Politica politica politica” si era intromessa mamma. “Non ci vediamo da secoli e siamo di nuovo finiti a parlare di cosa non funziona. Sono stufa. Allora Carlo. Mi dicevi che Anthony suonerà nella filarmonica di Chicago,” era passata a ritirare i piatti sporchi dal tavolino. “Che bella opportunità.”
“Scusa Mario” aveva detto lo zio rivolgendosi ancora a mio padre. “Se ne parlo con tanto ardore è perché l’Italia mi sta a cuore. E mi dispiace vederla sempre peggio ogni volta che torno.”
“Per carità. C’è libertà di pensiero in questo paese” aveva risposto papà. Ma sul finire la voce gli si era chiusa in gola. Aveva lasciato che le ultime parole gli scorressero sul margine della frase, come in una deriva.
“Grazie a dio, almeno tra queste mura, di sicuro c’è” aveva detto zio Carlo. “È come per Anthony e me, Maria” aveva ripreso rivolgendosi a mia madre. “A Chicago lui suona nella filarmonica, io insegno in una scuola superiore. Abbiamo una vita normale come tutti. È difficile da spiegare. Dove viviamo hai sempre la sensazione che ogni cosa sia possible. Si crede nel valore della diversità.” Pausa. “Alle volte mi domando che vita avrei fatto se fossi rimasto qua. E non lo dico perché non vi rispetto, lo sai. Da queste parti la gente fatica a vedere oltre il perimetro del proprio appartamento.”
“Questo te lo concedo” aveva detto mio padre. “Però non credo sia facilissimo neanche là.” Ma mio padre in America non c’era mai stato. Per mio padre l’America era quello che si vedeva in televisione. “Mi ricordo quel film bellissimo, come si intitolava?”
“Filadelfia” era intervenuta mamma.
“Appunto” aveva detto zio Carlo. “Philadelphia l’hanno girato a Philadelphia, non a Roma. Te lo immagini Philadelphia girato a Roma? Il fatto è che una società riflette su se stessa. Sui suoi cambiamenti. Sulle sue ingiustizie. Una società aperta, moderna, produce domande, cerca soluzioni. Era il 1993. Cosa si diceva da queste parti nel 1993?”
“Ci sarà stato qualche processo per corruzione o malapolitica” aveva detto mamma distribuendo le posate per il contorno. Lo si vedeva da come era intervenuta che aveva rinunciato a stare sulle difensive.
“Mani pulite” aveva detto papà.
“Mani pulite” aveva ripetuto zio Carlo. “E oggi?”
“Oggi le mani sono ancora più sporche” aveva detto mamma scomparendo in cucina, “e l’integrazione è un sogno in cui nessuno davvero crede.”

Mamma e zio Carlo erano rimasti a lungo a chiacchierare sul balcone mentre Anthony discuteva con qualcuno al cellulare in inglese. Papà ci aveva portato in camera per dormire.
“Perché tu e lo zio stavate litigando?” aveva chiesto la mia sorellina una volta sotto le coperte.
“Non stavamo litigando tesoro, stavamo discutendo.”
“Perché stavate discutendo… litigando?”
Papà aveva riflettuto. “Zio Carlo viene da un Paese dove le cose funzionano diversamente che qua.”
“È bene o male?”
“Dipende.”
“Da cosa?”
“Da quello che vuoi.”
“E lo zio cosa vuole?”
Aveva preso tempo. “Credo che lo zio voglia vivere la sua vita, amore mio. Allo zio piacciono i teatri, i cinema, vuole uscire la sera e andare nei posti dove trova persone a cui piacciono le stesse cose che piacciono a lui. Questa città è troppo piccola per lo zio.”
“Forse se ieri veniva al cinema con noi a vedere Scubidù era contento.”
Papà aveva sorriso. “Forse” aveva detto spegnendo la luce e augurandoci la buona notte.
Nel buio, pochi minuti dopo, avevo detto a mia sorella “lo zio Carlo è gay Elena.”
Ma lei già stava dormendo.
Papà aveva raggiunto mamma in cucina. Sentivo Anthony e lo zio in terrazzo a discutere, il tintinnio dei bicchieri a intrecciarsi col sussurrare delle voci.
Chissà com’ era lo spazio visto da Chicago, mi era venuto d’improvviso da pensare.
Il giorno dopo sarebbero ripartiti entrambi per l’America.



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