Ho cominciato tardi a prendere l’aereo per viaggiare, una decina d’anni fa. Ero sempre stata una camperista pura; se il tempo è poco, però, e le mete lontane, non ci sono altre scelte.
Il primo volo l’ho voluto fare da sola, per andare da un’amica che viveva in Germania. Soffro l’auto, nelle strade a curve, sulle navi non sempre va liscia e, in caso di scombussolamenti di stomaco, preferisco non esibirmi in pubblico. Temevo tracolli inutilmente: decollo, volo e atterraggio non mi hanno fatto né caldo né freddo, né la prima né le successive volte.
Dopo frequenti voli brevi, medi e lunghi, ieri sera, durante una turbolenza cattiva sul volo di rientro da Madrid, partito con puntuale ritardo, mentre il mio stomaco faceva le capriole e le orecchie ronzavano mi sono guardata intorno.
Eccoci tutti lì, perfetti estranei – per la maggior parte – chi con un libro, chi con l’ipad, chi con le cuffiette nelle orecchie, chi sonnacchioso. Ce ne stavamo compressi come sardine nei sedili Ryanair, al limite della decenza, mentre il personale di bordo faceva avanti ed indietro per smerciare qualunque cosa, preannunciato da stentorei avvisi trilingue.
Pensavo, mentre oscillavamo al vento, che è demenziale perdere più tempo per le pratiche di imbarco e sbarco che per il volo, che è inspiegabile aprire il gate per poi fare stare in coda al freddo delle maniche o delle scalinate le persone perché l’aereo sta ancora sbarcando, che sono ridicole le regole sul bagaglio a mano che sfidano i passeggeri ad inventarsi mille modi per aggirarle. Lunedì, per esempio, ho visto un ragazzino dimostrare con aria di superiorità all’addetta che la propria valigia entrava nella gabbietta di controllo e poi passare dieci minuti di orologio per tentare di disincastrarla: ha tribolato così tanto che rischiava di imbarcare con la struttura metallica e il bagaglio incluso. Pensavo che in viaggio la gente mangia in continuazione, per riflesso istintivo, come se si annullassero i ritmi abitudinari della giornata, che ci si siede per terra a bivaccare mentre è in coda, come in un caravanserraglio moderno senza cammelli e fieno, che i bambini che non sono in grado di fare silenzio per più di due minuti di fila forse bisognerebbe non portarli prima di aver capito come fare a tenerli occupati, povere creature in gabbia, che invidiavo un po’ la vita ancora da scrivere degli studenti erasmus che stavano rientrando per il ponte, che il rumore dei motori è veramente fastidioso quando si è stanchi e il brusio di fondo quasi insopportabile.
Pensavo, durante i sobbalzi e i vuoti d’aria, che è assurdo cancellare due voli sempre pieni zeppi e sostituirli con uno solo al giorno in orario improbabile e costringere la gente che viaggia per lavoro a trovare altre rotte in aeroporti più lontani. Pensavo che è ora di finirla con queste compagnie con un low cost di facciata e ricominciare a pretendere serietà, visti i prezzi dei biglietti.
E poi ho pensato, tra gli schiocchi delle lamiere, che, se la turbolenza fosse aumentata o continuata, magari quello sarebbe stato il mio ultimo volo e questo genere di considerazioni, come tante altre che mi si affollavano in testa, non avrebbero avuto più molta importanza.
Invece dopo aver ballato, fluttuato, saltellato, in qualche modo l’aereo ha toccato terra, il mio stomaco ha ritrovato la sua originaria collocazione pur turbato dall’esperienza, voi non leggerete il mio post di addio – sì, ho un post di addio abbozzato e qualcuno incaricato di salutarvi al mio posto in caso di improvvisa dipartita…è tanto grave? – e lunedì salirò di nuovo su un aereo, questa volta non gialloblù e amen.
E poi ho pensato che viaggiare in camper o in treno mi piace tanto, ma tanto, ma tanto di più e che mi dispiace per chi se la ritroverà a passare in casa tra bagno e tinello ma io faccio il tifo per l’alta velocità.