Stanno lì (pare) le radici dello schifo antropologico
Della Controriforma: è questa la tesi di Ermanno Rea. Tesi che ha una sua verosimiglianza. Pensiamoci… I Romani edificarono e amministrarono per secoli un Impero che andava dalla Siria alla Spagna, dall’Egitto alla Britannia. Funzionava. E il suo cuore stava a Roma. Poi vennero i Secoli Bui. Dai quali però l’Italia uscì grazie all’Umanesimo e al Rinascimento. Movimenti culturali di uomini tutti d’un pezzo, di schiene dritte, di coraggio intellettuale. Dopoiché… la fine. Dopo il Rinascimento, la catastrofe. Ma perché? Ecco, appunto, la Controriforma. Che ha spezzato quelle schiene, annullato quel coraggio. E inculcato nelle menti sopravvissute l’idea che è cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, accettare senza capire, adeguarsi, svicolare, sottomettersi e leccare il culo ai potenti in cambio di prebende e favori, occultare pensieri liberi e autonomi, insomma tirare a campare.
Ispirandosi al pensiero di Bertrando Spaventa (quindi non proprio l’ultima novità in fatto di filosofia), Rea inanella argomenti e riflessioni convincenti, anche se talvolta sembra pescarli in funzione della propria tesi. Quando il lettore si abitua alla propensione dell’autore a divagare e a una certa prosa un po’… come dire?… vecchiotta, il saggio si lascia leggere. Non sempre è convincente, ma di sicuro fa riflettere.
Ermanno Rea, La fabbrica dell’obbedienza, Feltrinelli
Piace: La raccolta di esempi storici, piuttosto convincenti.
Non piace: Alcune divagazioni inutili, lo stile un po’ antiquato.
Voto: 6/10