Fonte: Dino Cofrancesco per L’Occidentale
Nelle sue fantasticherie sociali Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint Simon aveva immaginato cosa sarebbe successo se, all’improvviso, fossero scomparsi dalla Francia tutti i ‘producteurs’ – tecnici, operai, artigiani, contadini; la vita, era la sua facile conclusione, si sarebbe bloccata come se oggi, diremmo noi, auto e treni rimanessero senza carburante. Al contrario, immaginava sempre il fertile ed estroso discendente del più famoso memorialista dell’Ancien Régime, qualora fossero scomparsi granduchi, ministri, gazzettieri, attori, saltimbanchi etc. tutto sarebbe continuato come prima, anche se, aggiungeremmo ancora noi, il mondo sarebbe sopravvissuto in bianco e nero e senza i colori sgargianti dei simboli e delle insegne dei poteri e dei saperi e senza le luminarie degli spettacoli legati alle attività di intrattenimento.Viviamo in un’epoca democratica e, anch’io, si parva licet componere magnis, rivendico il diritto di fantasticare e di inventare parabole. La mia, però, è assai diversa da quella del Conte. Ho sognato sere fa di trovarmi in California, nel porto turistico di Santa Monica, i campi elisi della civiltà industriale. Dinanzi a tante imbarcazioni, più o meno grandi, ma tutte di gran lusso, m’è venuta voglia di chiedere in giro i nomi di tanti ‘beati della terra’. Ne è scaturito un elenco lunghissimo ma monotono: quello yacht è del re dell’acciaio, a fianco c’è quello di un produttore di Hollywood, più in là i due fuoribordo del re dei tabacchi, il raffinatissimo veliero è del proprietario della rete televisiva Navaho, la fila di motoscafi è a disposizione degli ospiti di riguardo del petroliere Jameson etc. etc. A un certo punto, nel sogno, è esplosa una bomba micidiale di ultima generazione, di quelle che ammazzano gli uomini ma non ne contaminano l’habitat. Al posto degli americani, Santa Monica si è ripopolata di italiani che, a poco a poco, sono diventati i proprietari delle ville, delle auto e delle imbarcazioni lasciate intatte dalla catastrofe nucleare. Di nuovo mi sono ritrovato sul molo e di nuovo ho chiesto i nomi dei fortunati proprietari dei galleggianti. La risposta, questa volta, è stata molto diversa: quello yacht è di un barone universitario tributarista, a fianco c’è quello di un amministratore di partito (il mestiere di Lusi e di Belsito), più in là i fuoribordo sono del Presidente della Commissione X del Senato e del Vice Presidente della Camera, il raffinatissimo veliero è di un alto funzionario della Ragionieria dello Stato, i motoscafi sono di un vicedirettore dell’Eni e di vari dirigenti della RAI.
Morale della parabola: in America, chi ti fa ricco è il mercato, in Italia chi ti fa ricco è lo Stato. Sta scritto da qualche parte che, sotto il profilo etico-politico e della Giustizia con la g maiuscola, l’uno sia preferibile all’altro? Si dirà: ma il mercato crea ineguaglianze, allarga la forbice tra ricchi e poveri, getta le famiglie sul lastrico. Risposta: e perché lo Stato no? Le provvidenze statali, i ‘diritti sociali’ non sono forse una manna che cade dal cielo ‘alla cieca’, favorendo gli uni e tartassando gli altri, proteggendo chi ‘sta dentro’ e abbandonando al suo destino chi resta fuori? La crisi di Wall Street indusse, come si sa, non pochi investitori e speculatori al suicidio ma l’elevata imposizione fiscale di questi giorni non sta facendo le sue brave vittime? La libertà di accesso al mercato avrà pure i suoi limiti, ma la libertà che Montesquieu definiva come certezza del diritto gode, forse, di migliore salute nello stato «antimercatista» e la legge vi è davvero ‘eguale per tutti’? Si consideri, per non dir altro, che la produzione di merci non ne rende obbligatorio l’acquisto (certo la pubblicità cercherà di condizionare i gusti, ma un conto è il ‘consiglio per gli acquisti’, come diceva pudicamente Maurizio Costanzo, un conto è l’obbligo..) mentre la produzione di norme statali – regionali, provinciali, comunali – vincola tutti, proprio tutti. Posso astenermi dall’acquisto di una vettura perché costa troppo o perché la pubblicità non mi ha convinto ma non posso certo sottrarmi alla legge che aumenta di sette volte l’ICI sulla seconda casa (anche se non ne ricavo alcun reddito).
Da vecchio liberale ottocentesco, non mi ha mai accarezzato l’idea di ridurre tutto il vivere civile a mercato. Lo ripeto fino alla noia, essere liberali significa avere la consapevolezza che la libertà degli individui (non i ‘diritti’ moltiplicabili à merci) comporta il senso dell’’autonomia delle sfere’: l’economia è diversa dalla politica, la politica dal diritto, il diritto dalla morale, la morale dalla scienza, la scienza dalla religione etc. e tutte queste sfere vanno salvaguardate e rispettate nel loro ambito specifico. E’ il ‘pluralismo liberale’ così diverso e così lontano dal pluralismo di cui parlano oggi antropologi e sociologi, psicologi e filosofi multiculturalisti. Lo Stato è lo Stato e il mercato è il mercato: l’uno arricchisce e l’altro protegge e veglia affinché la libertà e la competizione economiche (produttrici di ineguaglianze mobili e legittime) non danneggino il tripode di John Locke, ovvero i ‘diritti naturali’ che il primo grande teorico del costituzionalismo liberale, autore dei Saggi sul governo civile, poneva a fondamento del patto sociale: la vita, la libertà, la proprietà.
La nostra ‘political culture’ è sempre pronta a cacciare (giustamente) i mercanti fuori del Tempio ma si mostra assai più indulgente quando vede gli uomini del Tempio irrompere nel mercato e fissare persino la lunghezza e la curvatura delle banane.
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