Pubblicato da giovanniag su dicembre 15, 2011
“ECCO L’UOMO” DI FABRIZIO CENTOFANTI
C’è un solo modo per essere felici
DI AUGUSTO BENEMEGLIO (*)
“Ciò che mi opprime non si può curare; è la mia croce e devo portarla da solo, ma Dio sa quanto si è incurvata la mia schiena per lo sforzo” (S. Freud)
1.Vivere l’istante.
Ecco l’uomo, di Fabrizio Centofanti (Effatà Editrice, 2011), è un romanzo dedicato all’uomo del fuoco, del sole, dell’insonnia, della faccia chiara del mondo, la goccia d’inchiostro di sangue e di miele, colui che non è più tra noi , e tuttavia continua ad essere freccia conficcata nell’altare , vetrata luminosa , croce di pietra e legno con nomi incisi tutt’intorno, memoria di memoria che si inventa una storia, cento , mille storie di mani tese , di voci e di gridi. Ecco l’uomo è dedicato a don Mario Torregrossa , il santo bruciato , memoria viva che si fa coscienza per sciogliere il nodo del tempo dei nostri egoismi/classismi/razzismi che non mutano ,nonostante tutto; lui è sempre lì, sopra il cielo della parrocchia , aquila e colomba , bosco pensante , lampada, lapis, coltello zampillo, benzina, rosso e nero , labbra annerite , il corpo che è uno straccio avvolto nel suo enigma nudo.
Don Mario è il quadro appeso alle nostre coscienze deboli , sta al chiodo , ancora al chiodo, sorridente, con l’unico dente rimastogli, voce viva gioiosa e commossa nel cammino buio, nel pianto, nello smarrimento, nella solitudine senza limiti del prete, del cuore del prete , dell’essere più profondo del prete. E quanto il “santo bruciato” sia ancora presente, agisca con lo spirito potente della sua energia, lo scopriamo fin dalle prime pagine del libro, quando il novello padre Brown, don Davide, il prete metafisico incaricato di esperire indagini sulla sua possibile canonizzazione, legge il tema di una bambina della Parrocchia di San***, dove si parla di un viaggio a Loreto, il pullman di mezzogiorno, l’ora instabile , il suono del sassofono, il tunnel, il coro, la commozione, le lacrime, la frase magica del vecchio parroco, io credo, io spero, io amo, lo stupore, l’incanto, la gioia, le mani e la coscienza del tempo senza limiti, la tenerezza di sentirsi uniti e amati, la scoperta degli assoluti, dell’eternità, – oh, Dio!, quello era il paradiso, e non era una cosa noiosa, immobile, statica, o un dolce per signore inglesi non più alla moda; no, era energia pura, potente, fragorosa, il fascio di luce di un angelo grigio e scalcinato che suonava il sassofono e t’invadeva, “riflesso indecifrabile di materiale cosmico, di tenebra e di luce, di galassie dai colori e dalle forme innumerabili (vds.pag.133), un messaggio ininterrotto di felicità ostinata, che annunciava l’esistenza di Dio” (vds.pag.23).
Tutto ciò attraversa l’anima del prete detective e, man mano che prosegue i suoi viaggi sulle tracce di santità di don Mario, – Loreto e dintorni, Sirolo, Osimo, e poi Firenze, Parma, Verona, Roma, ecc., – lo trasforma radicalmente, lo sconvolge, lo fa sentire inadeguato e indegno del sacerdozio, lo induce a lasciare il suo incarico tranquillo nella rettoria, a liberare la sua energia nascosta in qualche parte oscura dell’anima, a togliere il freno a mano che bloccava la sua esistenza: apriti, corri, libera la tenerezza e la forza che vogliono diventare vita (vds.pag.61).
Da colui che cerca, don Davide è in realtà il trovato, o il ri-trovato, da colui che insegue è l’inseguito dalla grazia. “Ricorda vagamente altre figure di religiosi, come ad esempio il pastore Ericsson di “Luci d’inverno”, il bellissimo film di Ingmar Bergman, o l’abbé Cénabre de “L’ Impostura” di Bernanos”, “incredulo per deficit d’amore” e che tuttavia “…durava, grazie a un miracolo di dolcezza e di abbandono, a una celestiale docilità…” Ricorda un po’ anche il famoso Padre Sergio dell’omonimo racconto di Tolstoj, i cui dubbi sulla fede sono un po’ quelli di tutti i credenti.
Figura sotto molti aspetti emblematica di sacerdote del nostro tempo, sottoposto a uno stress mediatico che ne svela il rassegnato distacco, l’intima fragilitàm i fuochi quasi spenti di una vocazione, Don Davide non ha dubbi, fin dall’inizio del suo percorso, sulla santità di don Mario. E infatti si riscatta, si redime dalla propria passività e indifferenza, trova la propria strada seguendo le piste, le tracce, i segni della santità (racconti , testimonianze, fatti, presenze straordinarie e misteriose, sempre al limite tra sogno e realtà) del prete siciliano. Sempre più attraversato da un’ansia di gioia e di felicità nuova, una rinnovata energia di conoscenza dell’inconoscibile, e insieme di ricerca del proprio destino, don Davide una cosa la capisce subito. Forse Don Mario non ha insegnato nulla di particolare a nessuno, ma chiunque è venuto a contatto con lui, con il suo spirito potente, è diventato “qualcosa”, qualcosa di vivo e concreto, è entrato nella vita vera. E’ stato un po’ come camminare al fianco di Cristo sulla via di Emmaus: vivere l’istante che è eterno.
2. C’è un solo modo per essere felici
E qui, credo, potremmo già terminare la nostra presentazione di “Ecco l’uomo”, se non ci fosse un sottotitolo, che fa parte integrante del romanzo: “C’è un solo modo per essere felici, ed è tutto racchiuso in quell’istante. Che è goccia di rugiada, grano di luce, abbraccio, fedeltà senza limiti a un’idea, a un progetto, a uno scopo finale, che sta nell’altro e l’uno, il tutto: è l’amore, che è il tema di fondo, il substrato del romanzo, il messaggio più evidente, che l’autore reitera in ogni sua azione, in ogni suo gesto, in ogni suo scritto, in ogni sua omelia, sentendosi spesso ai margini del caos, nel grembo dell’oscurità, sempre… “in bilico tra un precipizio e l’altro, come tutte le cuspidi (non a caso è nato nella cuspide della sensibilità della settimana di Chopin e De Andrè, la più intensa dell’anno) , cristalli finissimi che un respiro può ridurre in pezzi” (vds.pag53).
Ormai lo sappiamo bene, Fabrizio Centofanti è uno scrittore che traffica ai margini del caos, là dov’è la complessità della creazione vera, autentica, – “un caos diventato faticosamente cosmo, ordine segreto delle cose”(vds.pag.134). Ma è anche uno che ti dice ad ogni incontro che il peccato più grave è quello contro la speranza, e la speranza vera ha radici molto profonde, scavate nell’intimo della persona. E’ uno che si sgomenta per l’avanzare di una società che ogni giorno di più diventa cospirazione universale contro ogni forma di vita interiore. E’ questo il grande attentato contro l’uomo: la despiritualizzazione, che equivale a mortificare la persona, a ridurla, a renderla oggetto, a “cosificarla”. Fabrizio è uno che ti dice ogni giorno, ogni ora, ogni istante che l’Inferno, il vero inferno è non amare più, e ogni domenica ti ripete che ogni chiusura dell’io è il contrario dell’amore vissuto come dono di sé e condivisione. Anche quella tua chiusura è, in un certo modo, un’esperienza dell’inferno.
Per Fabrizio, che ha il carisma della poesia, esiste solo la scrittura e la parola che riesca a penetrare la coscienza e l’essere – fino a svuotarlo delle sue sovrastrutture, fino a fargli vedere la nuda verità di se stesso; ogni scrittura che rimane in superficie è solo chiacchiera sterile, vuoto a perdere, specchio ghiacciato di se stessi. La Parola, risvegliata nel suo cuore, una gran parola chiara, palpito di vocali, è quella che gli è stata affidata dal Signore Iddio per farla fruttificare con qualsiasi mezzo, internet compreso.
E il tutto lo fa di notte, rubando le ore al sonno, curvando la schiena, schiacciando le vertebre, rattrappendo gli arti, incidendo la propria pelle, e lo fa senza sconti, senza infingimenti, senza compiacimenti, senza retorica, senza difese, con ingenuità di cuore. Fabrizio scrive con la notte che si sfalda in un gran rumore, che si strappa, che si lacera, scrive per cercare di far passare la luce dell’alba, per fare ancora una capriola da primo mattino del mondo, o trovare la ragione di una caduta, insomma scrive per amore, solo per amore, nient’altro che per amore, e dopo, soltanto dopo, si conosce un po’ meglio.
Ma non bisogna mai dimenticare che il suo discorrere umano, il suo interrogare se stesso è destinato a dire l’indicibile senza tradirlo, ovvero che le sue parole sono prestate alla Parola, e che è continuamente, e costitutivamente, chiamato a farsi evento di bellezza. E’ solo il rapporto fra fede e bellezza che può condurlo alla felicità,, quello è – per lui – il “solo modo per essere felici”.
3. La nostalgia del gemello
Il “romanzo “, in questo caso, anziché la consueta forma diaristica, gli offre la possibilità di un maggiore distacco per un’operazione quasi terapeutica. “Ecco l’uomo” è una trasfigurazione delle sue esperienze vive e reali, ma anche una serie di incontri con le proprie ombre, con se stesso, e con l’altro se stesso, – don Davide – , il suo alter ego. Come don Mario, che aveva realmente un fratello gemello (fu lui, il buon Salvatore, di nome e di fatto, a risolvere il problema della pelle trapiantata del sacerdote, a prezzo di lunghi dolori, dopo che un folle gli aveva dato fuoco, procurandogli ustioni diagnosticate come fatali), così l’autore si costruisce un gemello, che è poi l’eterna nostalgia che abbiamo tutti noi di avere un doppio su cui scaricare il senso della nostra solitudine e dell’angoscia contestuale alla vita, ma anche per cercare insieme a lui, abbracciati, la luce in un mondo di tenebra.
Don Davide, secondo il parere di alcuni suoi fedelissimi lettori, rappresenta “l’uomo che Fabrizio sarà ora, l’uomo nuovo. E’ l’unico scritto di cui non c’è neanche un accenno online come se, scrivendolo, scrivesse veramente il suo diario “terapeutico”. E’ sul suo “doppio” che l’autore sembra porre le basi per altre eventuali “interviste” a se stesso. Nel frattempo don Davide ha acquisito nuova coscienza di sé, del suo essere prete vero, e chiede al Cardinale un altro incarico: “La vita è andare incontro ai drammi, alle lacerazioni della gente, affrontare le contraddizioni, lasciarsi mangiare dalla fame di senso che cresce sempre più; non voglio chiudermi nella torre d’avorio della meditazione… Ho bisogno di darmi, di moltiplicare i talenti che qualcuno ha consegnato alla mia vita” (vds.pag.115).
“Ecco l’uomo” è il primo romanzo di Fabrizio Centofanti, dopo due libri di saggistica, su Calvino, presentato al Viesseux di Firenze, e Rebora, e quattro diari di racconti, o frammenti, o tessere di mosaico (“Le parole della felicità”, “Guida pratica per l’Eternità”, “Pre(tre) à porter. La vita in cinque righe”, “Non superare le dosi consigliate”), schegge di vetro colorate, mazzi d’albe nella fratta, musica e fughe di passeri solitari, spiga di fiamme e giardini d’ossa, luminarie e cembali al vento, per i suoi funerali celesti. Ogni suo scritto è lo specchio dei suoi smarrimenti, delle sue angosce, delle sue delusioni, delle sue solitudini, delle sue notti di lacrime, ma anche del suo cuore ricolmo di fede, d’amore e di speranza, delle sue ginocchia macerate, delle sue mani piene di grani di rosario, della sua pelle, non ancora bruciata, che offre in olocausto a Dio, perché il debole non può dare altro che la propria pelle: “Che senso ha dirsi cristiani se non si è disposti a morire per questa causa? (vds.pag.150).
4. Si chiude un’epoca
Ecco l’uomo fa pensare all’“Ecce Homo” di Pilato, al Cristo, ma anche ad altri personaggi della Bibbia, a Giobbe, ad esempio, ridotto a essere una piaga vivente. Cos’è altro don Mario, che sopravvive a tutte le malattie possibili, un tumore, tre ulcere, un ictus, due infarti, diabete, emorragia intestinale, neuropatia, aggressione di un paranoico che gli dà fuoco, causandogli ustioni gravissime, di solito fatali? Nonostante tutto ciò, riesce a realizzare – senza possedere nessuna risorsa economica , ma fidando solo nella Provvidenza – che arriva puntualmente: una serie di miracolosi benefattori che intervengono all’ultimo momento a saldare debiti di cifre altissime – un’opera come il Centro di Formazione Giovanile Madonna di Loreto Casa della Pace che ha dell’incredibile, dello straordinario, del miracoloso, e a che a tutt’oggi attende ancora un riconoscimento ufficiale. Ma vicino a lui, ecco l’uomo, non un’ombra, ma l’amico sacerdote, il discepolo, il figlio spirituale, il fratello, il padre e la madre , don***, che lo seguirà passo passo nel suo calvario, fino alla sua morte: dodici anni da infermiere h. 24, dodici anni di pillole, insuline, prove di glicemia, chiamate notturne, cannucce, analisi urgenti, mantelle, cibi da selezionare, risate di gioia e litigate furiose, dodici anni a spingere la sua carrozzella.
Ormai trasferito, a sua richiesta, nella Parrocchia di San*** il prete rileva una serie di contraddizioni della vita pastorale, e chiede aiuto e conforto al Cardinale: “Noi dovremmo essere i modelli, eppure siamo segnati dalla fragilità esattamente come gli altri, anzi forse più degli altri, perché il peso delle responsabilità rischia di spingerci spesso a cercare vie di fuga. Dovremmo riconoscere che la vita fa acqua anche per noi. Credo che l’umiltà sia il dovere principale di chi guida il popolo di Dio e che il tradimento non sia la caduta, ma l’arroganza come se il ruolo potesse rendere immuni dalla imperfezione universale. Il prete non è un superuomo…”(vds.pag.155).
Cos’è in realtà questo romanzo, mascherato da giallo, da thriller sul mistero della santità, sulle tracce della santità, con protagonisti tre preti e una multiforme bellissima donna dagli occhi verde chiaro, Flavia, tentazione della carne, sirena del potere, segnale di un’illusione eterna che spinge a farsi guerra gli uni gli altri, invece di stringere un patto solidale”( vds.pag. 133 ), che vorrebbe fare un bestseller interplanetario di un’idea letteraria di Don** che ha rintracciato il presunto messaggio scritto da Dio di cui è unico depositario, un messaggio che potrebbe sconvolgere il mondo e il senso stesso del nostro vivere? E’ una confessione, una passeggiata intorno alla propria prigione, come direbbe Marguerite Yourcenar, con incontri e scontri, una presa di coscienza, uno specchio dell’anima, una ricerca lucida e spietata della nudità dell’anima, un tentativo di mettere a fuoco tutto ciò che è ancora dubbioso, irrisolto, incompiuto, incoerente? C’è chi, come Stella Maria Cofano, vede in questa esperienza artistica di Fabrizio – in cui mette in gioco se stesso, con rigore e coraggio morale, come ha sempre fatto – la metabolizzazione del suo grande dolore per la morte dell’amico, il dolore che giunge a maturazione, a compimento. Con questo romanzo si chiude un’epoca della sua vita, quella vissuta con don Mario; adesso inizia a vivere senza, contando su se stesso e la sua comunità, consapevole che lui gli sarà sempre accanto e sarà sempre importante, ma ora è lui, Fabrizio, l’unico interprete del suo destino.
5. Vita da prete
Insomma, una specie di chiusura di bilancio di un lungo arco di tempo. Ma, se vogliamo, alla fine, Fabrizio Centofanti, continua a scrivere sempre la stessa cosa , la sua “Vita da prete. Una cosa ridicola“, come aveva iniziato sette anni fa, con “Guida pratica all’eternità”, libro prezioso che don Davide trova in un albergo di Loreto e si porta sempre dietro: “Sembra facile alzare un prete. Con queste sedie di adesso, piene di sporgenze, diventa tutta una questione di gambe. Movimenti precisi, una danza che distribuisce il peso in proporzioni perfette, altrimenti addio colonna vertebrale. Mi sembra impossibile sollevare questa mole senza soccombere, rimanendone illeso.”
Lo sforzo dell’alzare un prete, – osserva qualcuno – non è quello di sollevare l’amico in carrozzina , ma se stesso, oppure la Chiesa stessa, un po’ come rievoca Giotto nella volta della Chiesa di San Francesco d’Assisi. Ritengo che Centofanti – scrive Giovanni Nuscis – incarni perfettamente la figura di un sacerdote che vive sul confine teso tra il qui e il lì, assorbendo gli urti di entrambe le dimensioni. Don*** ricorda quel tempo, ne parla con don Davide: Con la faccia appoggiata alla sua spalla, l’odore forte della pelle, la barba sempre ispida, le solite manovre millimetriche, le curve impossibili, le discese dai gradini…(pag.62) Prima ero io a spingere don Mario sulla carrozzina, a sollevarlo per metterlo nel letto o farlo alzare, ora sento le sue braccia premere sotto le ascelle quando vorrei sedermi, rinunciare. Don Mario mi ha insegnato a non abbandonare la nave. (pagg.125-126)
Ma qual era il suo segreto? “La parola chiave è pazienza” ( pagg.72).
La Pazienza è un monumento che non cede, è come la bilancia che pesa l’anima, è obbedienza, rigore, disciplina, è una passione, è un transito, un trascorrere e un restare, una immobilità vertiginosa. E’ un giardino che ci portiamo dentro, difficile da coltivare. E’ l’altra riva, è un’architettura di suoni, una fabbrica d’aria. Lui era un collezionista di pazienza, come tutti i santi, e trasportava persone e cose in un mondo migliore, in cui esse sono libere dalla schiavitù di essere libere…
Siamo alla fine del romanzo. Don Davide si trova nella sala d’attesa del Cardinale. L’ha mandato a chiamare, e lui non sa perché. C’è da aspettare, gli dice il segretario. L’opera di scrittura è compiuta, con tutte le sue simbologie, la sua febbre, le sue mitologie, le sue incertezze, le sue ombre, le sue luci, i suoi misteri. Non sapremo mai se il Cardinale formalizzerà il riconoscimento dell’opera di don Mario in favore dei giovani e il trasferimento della salma nella Chiesa di San*** da lui edificata; non sapremo mai se sarà avviato un processo per la canonizzazione del santo bruciato. E tuttavia don Davide, alter ego dell’autore, avverte una strana leggerezza, una beata fiducia, un senso di felicità. Per un istante comprese che Dio è un ragazzo dallo sguardo smarrito, abbandonato al Cottolengo, dimenticato da tutti, eppure ancora capace di abbracciare. (vds. pag.148) .
Qualsiasi opera, sia pure frutto della disperazione – diceva Thomas Mann – non può avere come sostanza ultima altro che l’ottimismo, la fede nella vita, e reca già in se stessa la trascendenza della speranza”. Leggendo questo romanzo dobbiamo, abbiamo l’obbligo di essere “prigionieri della Speranza”. Ed io queste parole di Zaccaria le sento nell’eco di quelle di don Fabrizio, nella musica del silenzio del suo cuore: “Il cuore , il cuore ha il potere di cancellare tutto, quando può stringere il suo sogno”.
(*) Relazione letta il giorno 7.12.2011 in occasione della presentazione del libro presso la Sala Ametista della Fiera del Libro tenutasi a Roma-Eur Palazzo dei Congressi.