Da un po’ di tempo a questa parte sta prendendo piede, soprattutto in rete, quella che da molti è vista come una soluzione possibile ai problemi economici del nostro Paese e una credibile leva per rilanciare la nostra stagnante economia.
La proposta sembrerebbe elementare, o quasi. Si tratterebbe, semplificando, di una svalutazione della moneta e una grossa iniezione di denaro nell’economia reale; denaro naturalmente stampato dallo Stato, il che prepone un’uscita dall’euro del nostro Paese.
Questa soluzione, con le dovute differenze contestuali, è stata adottata nell’ultimo periodo dal Giappone. Come sottolinea Maurizio Mazziero:“Attraverso le così dette “Abenomics”, Shinzo Abe è il nome del Primo Ministro Giapponese, il Paese dopo oltre vent’anni di recessione, bloccati dai bassi tassi di interesse stanno giocando la carta della stampa di denaro per innescare l’inflazione. Dato che il valore del Pil nominale è costituito dal Pil reale + tasso d’inflazione la loro carta disperata è quella di innescare inflazione per alzare il Pil. Inoltre stampando virtualmente moneta questa si indebolisce, rendendo le merci del Sol Levante più competitive.”
Un tentativo di fare un parallelismo tra la situazione nipponica e quella italiana, lo si deve ad un recente articolo apparso sul quotidiano inglese The Guardian. Il quotidiano ripercorrendo le storie economiche di Italia, Germania e Giappone sottolinea che: “A partire dai primi anni 90 tutti e tre i Paesi entrarono in un lungo declino, ognuno appesantito dai propri problemi finanziari (l’integrazione della Germania orientale, la bolla immobiliare di Tokyo e nel caso dell’Italia, la produttività stagnante) e in aggiunta ai loro problemi, il calo dei tassi di natalità.”. Ma mentre la Germania ha attuato una lunga serie di riforme durante le amministrazioni di Kohl e Schröder “Roma e Tokyo hanno scelto di prendere in prestito denaro per proteggere il tenore di vita della loro popolazione che invecchiava mentre attaccava i salari e le condizioni di lavoro dei giovani. Non ha funzionato.”
Per uscire da questa situazione, il Giappone ha messo a punto una strategia: “In parole povere, unirà una lunga politica di deficit di bilancio per un importo pari al 10% del PIL all’anno con una massiccia, in stile Federal Reserve, creazione di denaro. Un aumento dell’IVA dovrebbe tenere sotto controllo il deficit di bilancio.” Questa strategia, però, ha dei risvolti molto negativi per l’economia giapponese e in particolare per i suoi cittadini, tant’è che tale è la perdita di competitività delle esportazioni dei prodotti del Sol Levante che i redditi pro capite sono circa la metà di quelli degli Stati Uniti; la deflazione, in forma di continuo calo dei prezzi, scoraggia i consumi interni incoraggiando il risparmio; come sottolinea il dott. Mazziero: “Per contro l’inflazione farà perdere il potere di acquisto ai cittadini, che a questo punto trovano conveniente acquistare titoli di Stato esteri per la rivalutazione in termini monetari. E’ probabile che parte di questi flussi in acquisto si diriga anche verso i titoli di Stato periferici dell’Eurozona, il che spiegherebbe l’inaspettato successo delle aste di titoli di Stato anche nel nostro Paese.”
A fronte di queste pratiche, l’analista capo del Lombard Street Research, Charles Dumas, suggerisce all’interno dell’articolo di prendere tutt’altra strada:“Dumas raccomanda a Tokyo di rottamare il suo aumento dell’IVA per il momento e invece di tassare il capitale infruttuoso presente nell’economia giapponese. Il suo obiettivo sono i profitti trattenuti delle corporations, che non sono ne investiti ne erogati agli azionisti. Egli raccomanda una tassa punitiva, addirittura il 100%, e una tassa bassa o nulla sulla loro erogazione. L’obiettivo è quello di immettere denaro nell’economia. Non la roba creata dalla banca centrale e spesa per altri strumenti finanziari, nella speranza che possa filtrare giù nelle tasche dei consumatori. Denaro reale. Mentre vi è ogni ragione di tassare la ricchezza e il risparmio delle persone, specialmente i super ricchi, attaccare le corporations, che in Giappone coniugano ricchezza e cautela in egual misura, è più politicamente accettabile.”
E l’Italia?
Il nostro Paese si trova in una posizione diversa rispetto a quella giapponese: “L’adesione all’euro di Roma, significa che non è in grado di stampare denaro. Si potrebbe tassare il denaro improduttivo in conti bancari personali e aziendali, ma come molti paesi europei le sue banche non sono in ottima salute. Senza un settore delle esportazioni in espansione, deve guardarsi in casa e di recente ha messo l’accento, come il Regno Unito, su di una serie tagli del welfare.” Purtroppo con una società che continua ad invecchiare come la nostra, senza una rete di assistenza sociale, che comprende l’assistenza all’infanzia, e con i giovani che lasciano il Paese, la nostra popolazione continuerà a diminuire e ci ritroveremmo al punto di partenza.
L’articolo si chiude con uno scenario che non lascia molte vie d’uscita:“Nessuna meraviglia che molti economisti hanno ipotizzato che sarà l’Italia e non la Grecia il primo Paese a lasciare l’euro. Con un deficit di bilancio pari quasi a zero, si può sopravvivere con i fondi di Bruxelles. Ma un’uscita (dall’euro n.d.r) e la svalutazione sarebbero un modo per Roma, per ripetere il “spendere e svalutare” che ha incoraggiato inizialmente la formazione dell’euro stesso. Non c’è una facile via d’uscita. Solo quando i governi si rendono conto che hanno bisogno di tassare i capitali infruttuosi nelle loro economie per sbloccare i fondi per gli investimenti di cui hanno disperatamente bisogno, può iniziare il recupero.”