C’è sicuramente molto di vero nelle parole pronunciate da Umberto Eco qualche giorno fa all’Università di Torino, in occasione dell’ennesima laurea honoris causa (sono ormai una quarantina, ed è proprio per questo che molti ormai sospettano – a ragione – che il merito non c’entri un bel nulla). «I social media», ha detto quest’arida e speciosa istituzione vivente della cultura italiana, «danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.» Anch’io anni fa, per esempio, sentendomi prontissimo per la gloria imperitura, aprii un blog e cominciai fin dal primo giorno a spararle grossissime, senza mai poi pentirmene. C’è piuttosto da capire perché Eco abbia messo tanta enfasi nell’esprimere un concetto che in sé non è altro che una banalissima constatazione; insomma, per dirla con gli imbecilli: e allora?
Per molti versi la questione social media somiglia alla vecchia questione democrazia. Da una parte la democrazia viene vista come giusta in quanto espressione e sbocco politico inevitabile di diritti naturali universalmente riconosciuti. Dall’altra la democrazia spaventa per la sua volgarità. Non un bieco reazionario, ma uno spirito fine e liberale come Stendhal, senza averla mai vista di persona, già paventava 180 anni fa il clima gretto e soffocante della democrazia di tipo statunitense, da lui descritta come tirannia dell’opinione pubblica. Ed è un fatto che il suffragio universale ha dato la possibilità di voto non solo a milioni d’ imbecilli ma perfino alle donne, disgrazia di cui nemmeno i lunghi anni di apprendistato del suffragio ristretto, vera e propria era di transizione tra i regimi aristocratici e quelli democratici propriamente detti, hanno potuto limitare i danni in maniera accettabile. Col senno di poi, agli occhi del saggio conservatore quest’era pedagogica di transizione non ha potuto che apparire troppo breve.
Ma Umberto Eco non è un saggio conservatore. Al contrario, come i suoi scalmanati sodali di “Libertà e Giustizia”, è un fanatico della democrazia. Il saggio conservatore non idolatra la democrazia, ma è capace di apprezzare quest’approdo con l’equilibrio interiore di chi arriva all’agiatezza e alle sue trivialità senza esserne sedotto. Il tanfo emanato dalla democrazia, che è la sua fragranza naturale, lo rassicura anzi sul suo buono stato; una democrazia perbene, parlando da un punto di vista sociologico, è come la bella politica invocata dagli sciocchi o dagli imbroglioni: una cosa contro natura e fortemente sospetta. Il democratico da operetta ama invece la democrazia come un padre-padrone ama il proprio figlio, ossia finché gli obbedisce, lo compiace o non lo delude: dopodiché lo ammazza o lo rinnega.
La verità è che i demiurghi alla Eco amano la democrazia immatura, l’amano fin quando s’immedesima in una piazza popolata da minoranze militanti, capace d’intimidire e di mettere il popolo variegato degli imbecilli davanti al fatto compiuto. E questo vale anche per le piazze mediatiche create dai social media, strumenti benedetti finché servono a raggruppare i firmaioli compulsivi tanto amati dal milieu democratico-progressista, e maledetti quando, con la forza primigenia della vegetazione equatoriale, l’Anonima Imbecilli viene a soffocare democraticamente gli impulsi oligarchici degli amici di Eco.
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