Bologna, Vicolo Bolognetti.
Stefano “Edda” Rampoldi: uomo, cantante, operaio specializzato nell’allestimento dei ponteggi.
L’ordine è casuale, visto che ci interessa sottolineare solo il fatto che l’arte, quando è in relazione con l’essere umano, se ne infischia delle convenzioni sociali e delle caste tanto care alla società nella quale viviamo, a volte nostro malgrado.
L’ex Ritmo Tribale è una di quelle strane creature nate in cattività che continuano a combattere contro le tempeste della vita, hanno flirtato con la morte e sono uscite quasi indenni da lunghi periodi di indigenza, anche a causa del consumo di droghe. Fatti suoi, potremmo tranquillamente aggiungere, ma è lui stesso a parlarne e a scherzarci sopra quando se la sente. Per questo, ma soprattutto per la sua musica, vinciamo ritrosie e scazzi personali per fiondarci in solitaria a godere delle sue parole. Ne usciamo con la consapevolezza di avere davanti una figura diversa dalle altre incontrate finora. Confessiamo di non aver capito/apprezzato fino in fondo il suo lavoro (anche ai tempi dei Ritmo Tribale eravamo presi da altre realtà italiane, forse a torto), mentre per l’ultimo Odio I Vivi, dopo aver provato ad ascoltare numerose volte i pezzi in streaming, c’eravamo ripetuti che la sua voce biascicata e le troppe moine alla lunga stancavano un po’. Nel mezzo c’è stato Semper Biot (2009), comunque un disco degno d’attenzione, con pezzi di una nudità impressionante.
Mettiamo da parte queste considerazioni, ora, e pensiamo al fatto che Edda è autore di ottime songs e performer sopraffino. Possiede la capacità di reinterpretare pezzi anche molto diversi tra loro (per l’occasione, “Suprema” di Moltheni e “Laura” di Ciro Sebastianelli, una cosa lontana anni luce da questi tempi di hipster e retromanie assortite). Confessa al pubblico di avere una predilezione per la bolognese Cristina D’Avena (addirittura!), mentre continua imperterrito a ringraziare il chitarrista che l’accompagna (Alex Grazian) e a dileggiare il batterista assente ingiustificato (che è a Berlino ed ha abbandonato la baracca). Tra riproposizioni di “Snigdelina” e “Anna”, “Tania”, “Topazio” (no, non è una sequela di noiose telenovelas ma soltanto l’ossessione per la fica, tanto per chiarire), questa versione aggiornata del Lulù di petriana memoria (molte le somiglianze col Volonté disperato de “La Classe Operaia Va In Paradiso”) opera sulla canzone d’autore come farebbe uno scaltro riccetto pasoliniano di periferia, la sevizia alla sua maniera, partendo da un intimismo spinto poi fino all’esasperazione. Con il pezzo omonimo dell’ultimo lavoro mostra il suo manifesto programmatico, accompagnato dalla telecaster e da quella innata fame di ingoiare uomini a colazione. Un talento grezzo che se ne sbatte di sembrare cool e ti mette davanti al naso arnesi da lavoro e sigarette con la birra ghiacciata tra le mani. Se vi capita di fare un giro nella periferia milanese potreste incontrarlo mentre, da sopra un’impalcatura, fa finta di poeteggiare beffardo, fischiando ad ogni schianto di ragazza che gli passa sotto.
Il resto, compresa la musica stessa, quasi non conta niente: sono solo pippe.
La foto a corredo dell’articolo è di Vittorio Bongiorno.
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