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Edgar Allan Poe – “La logica del verso” 5

Creato il 23 ottobre 2012 da Marvigar4

la logica del verso

Edgar Allan Poe

La logica del verso

traduzione dall’originale The rationale of verse

di Marco Vignolo Gargini

   Ma questo fatto — il fatto che l’essenza, o il tempo intero, del piede resti immutato, è ora così lampante al lettore che potrei avventurarmi a proporre, finalmente, un’accentuazione che risponderà al vero proposito — cioè a quello che dovrebbe essere il vero proposito di ogni accentuazione — lo scopo di esprimere all’occhio l’esatto valore relativo di ogni sillaba impiegata nel Verso.

   Ho già dimostrato che l’enunciazione, o lunghezza, è il punto da cui partiamo. In altri termini, iniziamo con una sillaba lunga. Questa, allora, è la nostra unità; e non ci sarà bisogno affatto di accentarla. Una sillaba non accentata, in un sistema di accentazione, va vista sempre come una sillaba lunga. Così uno spondeo sarebbe senza accento. In un giambo, la prima sillaba essendo «breve», o metà della lunga, dovrebbe essere accentata con un piccolo 2, posto sotto la sillaba; l’ultima sillaba, essendo lunga, dovrebbe essere non accentata; — il tutto sarebbe così:

(co2ntrol).

In un trocheo, questi accenti sarebbero semplicemente capovolti, così:

(manl2y).

In un dattilo, anche ognuna delle due sillabe finali, essendo la metà della lunga, dovrebbe essere accentata con un piccolo 2 sotto la sillaba; e, lasciata la prima sillaba senza accento, il tutto sarebbe così:

(happi2nes2s).

In un anapesto dovremmo capovolgere il dattilo così:

(in2 th2e land.).

Nel dattilo bastardo, essendo ognuna delle tre sillabe conclusive un terzo della lunga, dovrebbe essere accentata con un piccolo 3 sotto la sillaba e l’intero piede verrebbe così:

(flower3s  e3ve3r).

Nell’anapesto bastardo dovremmo capovolgere il dattilo bastardo così:

(i3n th3e re3bound).

Nel giambo bastardo, ognuna delle due sillabe iniziali, essendo un quarto della lunga, dovrebbe essere accentata sotto con un piccolo 4; l’intero piede sarebbe così:

(i4n th4e rain).

Nel trocheo bastardo, dovremmo capovolgere il giambo bastardo così

(many4 a4).

Nel trocheo veloce, ognuna delle tre sillabe conclusive, essendo un sesto della lunga, dovrebbe essere accentata sotto con un piccolo 6; l’intero piede sarebbe così:

(many6  a6re  th6e).

Il giambo veloce non è stato ancora creato, e molto probabilmente non lo sarà mai; poiché sarebbe eccessivamente inutile, goffo e soggetto a fraintendimenti — come l’ho già dimostrato anche del trocheo veloce: — ma, se dovesse apparire, dovremmo accentarlo capovolgendo il trocheo veloce. La cesura, essendo variabile in lunghezza, ma sempre più lunga di una «lunga», dovrebbe essere accentata, sopra, con un numero che esprime la lunghezza, o il valore, del piede distintivo del ritmo in cui capita. Così una cesura, in un ritmo spondaico, sarebbe accentata con un piccolo 2 sopra la sillaba, o, piuttosto, sopra il piede. In un ritmo dattilico o anapestico, la accentiamo anche con un piccolo 2, sopra il piede. In un ritmo giambico, tuttavia, bisogna accentarla, sopra, con un 1 ½; dato che questo è il valore relativo del giambo. Nel ritmo trocaico, diamo, ovviamente, la stessa accentazione. Per il complesso 1 ½, comunque, sarebbe consigliabile sostituire la più semplice espressione 3/2, che sarebbe la stessa cosa.

In questo sistema di accentazione i versi di Cranch, citati sopra, verrebbero scritti così:

Many6  are6  the6 | thoughts tha2t | come to2 | me3/2
   In my2 | lone2ly | musin2g, |
And the2y | drift s2o | strange an2d | swi3/2ft
   There’s n2o | time fo2r | choos2ing |
Which t2o | follo2w | for t2o | leav3/2e
   An2y, | seems a2 | losin2g. |

Nel sistema ordinario l’accentazione sarebbe in questo modo:

Māny arĕ thĕ | thōughts thăt | cōme tŏ | mē
In my | lōnely | mūsing, |
ānd thĕy | drīft sŏ | strānge ănd | swīft |
Thēre’s nŏ | timē fŏr | choōsing |
Whīch tŏ | fōllŏw, | fōr tŏ | lēave
āny, | seēms ă | lōsĭng. |

Va qui osservato che io non do affatto per scontato che questa sia la scansione «ordinaria». Al contrario, non ho mai incontrato qualcuno che avesse la più vago comprensione della vera scansione di questi versi, o come questi. Ma dando per scontato che questo sia il modo in cui le nostre prosodie dividerebbero i piedi, esse accentuerebbero le sillabe proprio come ho scritto sopra.

Adesso, lasciate che qualsiasi persona ragionevole confronti i due modi. Il primo vantaggio visibile nella mia modalità è quello della semplicità — del tempo, dello sforzo e dell’inchiostro risparmiati. Persino contando le frazioni come due accenti si troveranno solo ventisei accenti nella stanza. Nell’accentazione comune ve ne sono quarantuno. Ma ammettiamo che tutto ciò sia un’inezia, cosa che non è, e procediamo con i punti importanti. L’accentazione comune esprime la verità in particolare, in generale, o sotto ogni aspetto? È coerente con se stessa? Comunica sia all’ignorante o allo studioso una giusta concezione del ritmo dei versi? A ognuna di queste domande bisogna rispondere negativamente. Le mezzelune, essendo esattamente simili, vanno intese, tutte, come l’espressione di un’unica e identica cosa: e così tutte le prosodie le hanno sempre intese e desiderato che fossero intese. Esse esprimono, infatti, «breve» — ma questa parola ha ogni specie di significati. Serve a rappresentare (si lascia al lettore indovinare quando) talvolta la metà, talvolta un terzo, talvolta un quarto e talvolta un sesto di una «lunga» — mentre nei libri «lunga» è lasciata indefinita e senza descrizione. D’altro canto, si potrebbe dire che l’accento orizzontale esprime sufficientemente bene e senza variazioni le sillabe che si intendono lunghe. Non esprime niente del genere. Questo accento orizzontale è posto sulla cesura (dovunque, come nelle prosodie latine, la cesura è riconosciuta) come sulla sillaba lunga ordinaria, ed implica tutto e niente, come la mezzaluna. Ma ammettiamo che esprima la sillaba lunga ordinaria, (lasciando la cesura fuori discussione), non ho espresso l’identica cosa senza usare affatto alcuna espressione? In una parola, mentre le prosodie, con un certo numero di accenti, non esprimono proprio nulla, io, con appena la metà, ho espresso tutto ciò che, in un sistema di accentazione, richiede l’espressione. Dando un’occhiata al mio modo nei versi di Cranch, si vedrà che esprime non solo l’esatta relazione delle sillabe e dei piedi, tra di loro, in quei particolari versi, ma il loro preciso valore in rapporto a ogni altro piede o sillaba esistente o concepibile, in ogni sistema di ritmo esistente o concepibile.

Il fine di ciò che definiamo scansione è il segno distinto del flusso ritmico. La scansione con accenti o linee perpendicolari tra i piedi — ossia la scansione solo con la voce — è la scansione solo per l’orecchio; del tutto ottima a suo modo. La scansione scritta si rivolge all’orecchio tramite l’occhio. In ogni caso l’obiettivo è l’indicazione distinta del flusso ritmico, musicale o di lettura. Non può esserci nessun altro obiettivo e non c’è. Quindi, ovviamente, il flusso della scansione e della lettura dovrebbe scorrere di pari passo. Il primo deve concordare con il secondo. Il primo rappresenta ed esprime il secondo; ed è buono o cattivo a seconda che lo rappresenti fedelmente o falsamente. Se con la scansione scritta di un verso non siamo in grado di percepire alcun ritmo o musica in verso, allora il verso è non ritmico o la scansione è falsa. Applichiamo tutto questo ai versi inglesi che abbiamo citato, in vari punti, nel corso di questo saggio. Si troverà che la scansione esprime esattamente il ritmo, e così realizza completamente il solo scopo per il quale è richiesta.

Ma si applichi la scansione delle scuole al e verso latino, e quale risultato abbiamo? — che il verso è una cosa e la scansione tutta un’altra. Il verso antico, letto a voce alta, è in generale musicale, e occasionalmente molto musicale. Scandendolo con le regole prosodiche non riusciremo, per lo più, a farne nulla. Nel caso del verso inglese, più indugiamo enfaticamente sulle divisioni tra i piedi, più distinta è la nostra percezione del genere di ritmo inteso. Nel caso dei versi greci e latini, più ci soffermiamo meno distinta è questa percezione. Per chiarire faccio un’esempio:

Mæcenas, atavis edite regibus,
O, et præsidium et dulce decus meum,
Sunt quos curriculo pulverem Olympicum
Collegisse juvat, metaque fervidis
Evitata rotis, palmaque nobilis
Terrarum dominos evehit ad Deos. [1]

Ora, leggendo questi versi, c’è appena una persona su mille, seppur ignorante di latino, che non ne colga e ne apprezzi all’istante il flusso — la musica. Tuttavia, un prosodista informa il pubblico che la scansione scorre così:

Mæce | nas ata | vis | edite | regibus |
O, et | præsidi’ | et | dulce de | cus meum |
Sunt quos | curricu | lo | pulver’ O | lympicum |
Colle | gisse ju | vat | metaque | fervidis |
Evi | tata ro | tis | palmaque | nobilis |
Terra | rum domi | nos | evehit | ad Deos. |

   Ora, non nego che si ottenga un certo tipo di musica dai versi se li leggiamo in accordo con questa scansione, ma vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che questa scansione e quel certo tipo di musica che da esso sprigiona, sono del tutto in contrasto non solo con il flusso della lettura che ogni persona comune darebbe naturalmente ai versi, ma con il flusso della lettura universalmente dato loro, e mai loro negato neppure dal più ostinato e stolto degli studiosi.

   E adesso queste domande si impongono a noi — «Perché esiste questa discrepanza tra il verso moderno con la sua scansione, e il verso antico con la sua?» — «Perché nel primo caso vi sono accordo e rappresentazione, mentre nell’ultimo non ci sono né l’uno né l’altra?» o, per venire al punto, — «Come dobbiamo riconciliare il verso antico con la sua scansione scolastica?» A questa conciliazione assolutamente necessaria — dobbiamo giungervi supponendo errata la scansione scolastica perché il verso antico è giusto, o sostenendo che il verso antico è errato perché la scansione scolastica non va negata?

   Se dovessimo adottare l’ultimo modo per sistemare la difficoltà, potremmo in qualche misura, almeno, semplificare l’espressione della correzione mettendola così — Perché i pedanti non hanno occhi, quindi i poeti antichi non avevano orecchie.

   «Ma», dicono i signori senza occhi, «la scansione scolastica, benché non ci sia stata certamente trasmessa nella forma dagli stessi poeti antichi (i signori senza orecchie), è tuttavia dedotta da certi fatti fornitici dall’accurata osservazione degli antichi poemi.»

   E illustriamo questa forte posizione con un esempio di un poeta americano — che dev’essere un poeta di qualche pregio, altrimenti non risponderà allo scopo. Prendiamo. Alfred B. Street [2]. Ricordo questi due suoi versi:

His sinuous path, by blazes, wound
Among trunks grouped in myriads round.

   Con il senso di questi versi non ho niente a che fare. Quando un poeta si trova in una «bella frenesia», può immaginare una grande foresta come una piccola — e «by blazes» non è inteso per un giuramento. A me interessa il ritmo, che è giambico.

   Ora, supponiamo che di qui a mille anni, quando la «lingua Americana» sarà morta, un erudito prosodista vorrà dedurre da una « accurata osservazione» dei nostri migliori poeti, un sistema di scansione per la nostra poesia. E supponiamo che questo prosodista dipenda così poco dalla generalità e immutabilità delle leggi della Nature, da assumere al principio che, poiché vivevamo mille anni prima di lui e usavamo le macchine a vapore invece dei palloni mesmerici, dobbiamo quindi aver avuto un modo molto singolare di articolare le nostre vocali e insieme di rendere newyorchese il nostro verso. E supponiamo che con queste e altre fondamentali proposte racchiuse con cura nel suo cervello, arrivasse al verso, —

Among | trunks grouped | in my | riads round.

   Trovandolo in un ritmo ovviamente giambico, lo dividerebbe come sopra; e osservando che «trunks» costituisce il primo membro di un giambo, lo definirebbe breve, come il signor Street l’aveva inteso. Inoltre: — se invece di ammettere la possibilità che il signor Street, (che ormai sarebbe chiamato semplicemente Street, come diciamo Omero) — possa aver avuto l’abitudine di scrivere senza cura, come fecero i poeti dell’epoca del prosodista, e come faranno tutti i poeti (a causa del loro essere geni), — invece di ammettere questo, supponiamo che lo studioso erudito faccia una «regola» e la metta in un libro, per dire che, nel verso americano, la vocale u, quando si trovava tra nove consonanti, era breve: che cosa le persone assennate del suo tempo, date le circostanze, avrebbero il diritto non solo di pensare ma anche di dire di quello studioso? — beh, che era «uno scemo fottuto!»

   Ho posto un caso limite, ma esso va dritto alla radice dell’errore. Le «regole» sono fondate sull’«autorità»; — e questa «autorità» — può dirci qualcuno cosa significa? o suggerirci che cosa non possa significare? Non è chiaro che lo «studioso» di cui s’è parlato sopra potrebbe facilmente aver dedotto dall’autorità un sistema totalmente falso come uno parzialmente vero? Dedurre dall’autorità una prosodia coerente dei metri antichi sarebbe stato certamente nei limiti della possibilità nuda e cruda; e il compito non è stato portato a fine, per la ragione che richiede una specie di raziocinio completamente estraneo al cervello di un topo di biblioteca. Un rigido esame mostrerà che le pochissime «regole» che non hanno tante eccezioni quanti esempi, dono quelle che hanno, per caso, le loro basi vere non nell’autorità, ma nelle leggi onniprevalenti della sillabazione; come, per esempio, la regola che dichiara che una vocale davanti a due consonanti è lunga.

   In una parola, la volgare confusione e l’antagonismo della prosodia scolastica, come la sua marcata inapplicabilità al flusso di lettura dei ritmi che pretende di illustrare, sono attribuibili in primo luogo alla totale assenza di un principio naturale che fosse una guida nelle indagini che sono state intraprese da uomini inadeguati; e, in secondo luogo, alla negligenza dell’ovvia considerazione che i poemi antichi, che sono stati i criteria assoluti, fossero l’opera di uomini che dovevano aver scritto approssimativamente e con un sistema poco definito, come noi stessi.

   Se Orazio vivesse oggi, dividerebbe per noi la sua prima Ode in questo modo, e «sgranerebbe gli occhi» di fronte alle assicurazioni dei prosodisti che sostengono non avrebbe alcun diritto di fare una simile divisione:

Mæce2na2s | at2avi2s | edi2te2 | regib2u2s |
O e2t præ2 | sid3iu3m et3 | dulce2 de2 | cus me2u2m |
Sunt qu2os cu2r | ricu2lo2 | pulve3re3m O3 | lympi2cu2m |
Colle3gi3sse3 | juvat | me2taqu2e | fervi2dis2 |
Evi3ta3ta3 | rotis | palma2qu2e | nobi2lis2 |
Terra2ru2m | domi2no2s | eve2hi2t | ad | De2os2. |

  Leggendo con questa scansione il flusso è preservato; e più ci soffermiamo sulle divisioni, più il ritmo inteso diventa evidente. Inoltre, i piedi hanno tutti lo stesso tempo; mentre nelle scansioni scolastiche i trochei — quelli ammessi — sono usati assurdamente come equivalenti degli spondei e dei dattili. I libri dichiarano, per esempio, che Colle, che inizia il quarto verso, è un trocheo, e sembrano ignorare superbamente che porre un trocheo come apposizione di un piede lungo è violare l’inviolabile principio di tutta la musica, il tempo.

   Tuttavia, «alcuni» sosterranno che non ho alcun diritto di fare un dattilo con sillabe così ovviamente lunghe come sunt, quos, cur. Certamente non ho alcun diritto a far così. Non ho mai fatto così. E Orazio non l’avrebbe fatto. Ma lo faceva. Bryant e Longfellow fanno lo stesso ogni giorno. E semplicemente perché questi signori, ogni tanto, dimenticano a tal punto se stessi che sarebbe arduo se qualche futuro prosodista insistesse a ridurre Thanatopsis o lo Spanish Student a un mucchio di trochei, spondei e dattili.

   Qualcun altro sosterrà anche che, nella parola decus, non sono riuscito meglio dei libri a far concordare il flusso della scansione con quello della lettura, e che decus non era pronunciato decus. Rispondo che non ci può essere dubbio che la parola, in questo caso, era pronunciata decus. Va osservato che l’inflessione latina, o la variazione di una parola nelle sue sillabe finali, portava i romani — deve averli portati — a prestare la più grande attenzione al finale di una parola che non al suo inizio, più di quanto facciamo noi con le finali delle nostre parole. La fine della parola latina stabiliva quella relazione della parola con le alter parole che noi stabiliamo con le preposizioni o i verbi ausiliari. Quindi, sarà sembrato infinitamente meno strano a loro che non a noi soffermarsi in qualsiasi momento per qualunque motivo, in modo anomalo, su una sillaba finale. Nel verso, questa licenza — di rado una licenza — sarebbe stata frequentemente ammessa. Queste idee rivelano il segreto di versi come

Litoreis ingens inventa sub illicibus sus,

e

Parturiunt montes et nascitur ridiculus mus,

che ho citato, poco fa, parlando della rima.

   Riguardo alle elisioni prosodiche, come quella di rem davanti a O, in pulverem Olympicum, è davvero difficile capire come una nozione così miseramente stupida possa esser entrata nel cervello persino di un pedante. Se mi si domandasse perché i libri tagliano una vocale davanti a un’altra, potrei dire — Forse è perché i libri credono che, siccome un cattivo lettore tende in ogni modo a far scivolare l’unica vocale nell’altra, tanto vale stamparle già belle e scivolate. Ma nel caso della m finale, che è la più facile da pronunciare tra tutte le consonanti, (come testimonia l’infantile mamma) e quella che meno può ingannare l’orecchio con qualche sistema di slittamento — nel caso della m sarei portato a replicare che, per quanto mi risulta, i prosodisti fecero questo perché gli andava di farlo, e desideravano vedere quanto sarebbe apparso buffo dopo che era fatto. Il lettore razionale capirà che, per la grande facilità con cui em si può enunciare, si adatta ammirevolmente a formare una delle veloci sillabe brevi nel dattilo bastardo (pulve3re3em O3); ma visto che i libri non avevano alcuna concezione di un dattilo bastardo, lo colpirono subito alla testa — tagliandogli la coda!

   Fatemi dare un campione della vera scansione di un’altra misura di Orazio — che incorpora un esempio dell’elisione appropriata:

Int2ege2r | vitæ | scele3r3isqu3e | purus |
Non e2ge2t | Mauri | jacu3li3s ne3 | que arcu |
Nec ve2ne2 | natis | gravi3da3 sa3 | gittis,
   Fusce2, fa2 | retrâ. [3]

   Qui la regolare ricorrenza del dattilo bastardo dà grande animazione al ritmo. La e davanti alla a in que arcu è tagliata, quasi per pura necessità — cioè, scorre nella a in modo da preservare lo spondeo. Ma perfino questa licenza sarebbe stato meglio non prenderla.

   Se avessi spazio, niente mi piacerebbe di più che procedere con la scansione di tutti i ritmi antichi e mostrare quanto facilmente, con l’aiuto del buon senso, la musica intended di ognuno di essi possa essere evidenziata all’istante. Ma ho già oltrepassato i miei limiti e debbo concludere questo saggio. Tuttavia, non potrei omettere del tutto l’esametro eroico.

   Ho impostato le «elaborazioni» suggerendo lo spondeo come primo passo per il verso. Ma l’innata monotonia dello spondeo ne ha causato la scomparsa come base del ritmo da tutta la poesia moderna. Potremmo dire, infatti, che il verso eroico francese — il più infelicemente monotono dei versi esistenti — è a tutti gli effetti spondaico. Ma non è spondaico artatamente, e se i francesi dovessero mai esaminarlo, senza dubbio lo definirebbero giambico. Va osservato che la lingua francese è stranamente peculiare su questo punto — che è senza accentazione e di conseguenza senza verso. Il genio della gente, più che la struttura della lingua, dichiara che le loro parole sono per lo più enunciate con un’uniforme indugio su ciascuna sillaba. Per esempio, noi diciamo «syllabification». Un francese direbbe syl-la-bi-fi-ca-ti-on, non soffermandosi su nessuna sillaba con qualche particolarità sensibile. Qui pongo ancora un caso estremo per essere ben compreso, ma il fatto in generale è come lo presento — ossia, relativamente, i francesi non hanno accentazione; e non ci può essere nulla degno del nome di verso senza. Quindi, i francesi non hanno un verso degno di nome — che è il fatto posto in termini sufficientemente chiari. Il loro ritmo giambico sovrabbonda così di piedi assolutamente spondaici da garantirmi di chiamare spondaico il suo fondamento; ma il francese è l’unica lingua moderna che abbia un ritmo con tale fondamento, e persino nel francese, come ho detto, non è intenzionale.

   Ammettendo, comunque, la validità del mio suggerimento, che lo spondeo fu il primo approccio al verso, dovremmo aspettarci di trovare, in primo luogo, spondei naturali (parole che formano ciascuna proprio uno spondeo) più abbondanti nelle lingue più antiche; e, in secondo luogo,, spondei che formano la base dei più antichi ritmi. Queste aspettative sono confermate in entrambi I casi.

   Il fondamento intenzionale dell’esametro è spondaico. I dattili sono la variazione del tema. Si osserverà che non c’è assoluta certezza circa i loro punti di interposizione. Il penultimo piede, è vero, di solito è un dattilo, ma non così uniformemente, mentre l’ultimo, su cui l’orecchio si sofferma, è sempre uno spondeo. E anche il fatto che il penultimo sia di solito un dattilo potrebbe riferirsi chiaramente alla necessità di terminare con lo spondeo distintivo. A corroborare ancora questa idea dovremmo cercare di trovare se il penultimo spondeo è più comune nel verso più antico, e, di conseguenza, lo troviamo più frequente nell’esametro greco che in quello latino.

  Ma oltre a tutto ciò, gli spondei non solo prevalgono di più nell’esametro eroico dei dattili, ma si presentano con un’estensione tale da essere spiacevoli all’orecchio moderno, a causa della monotonia. Ciò che i moderni apprezzano soprattutto e ammirano nell’esametro greco è la melodia degli abbondanti suoni vocalici. Gli esametri latini in verità piacciono a pochissimi dei moderni —sebbene molti facciano finta di cadere in estasi davanti a loro. Negli esametri di Silio Italico, citati parecchie pagine fa, la preponderanza dello spondeo è marcatamente manifesta. Oltre agli spondei naturali del greco e del latino, ne sorsero numerosi artificiali nel verso di queste lingue, a causa della tendenza che l’inflessione ha di portare la piena accentazione sulle sillabe finali, e la preponderanza dello spondeo è assicurata di più dalla relativa rarità delle piccole preposizioni che noi abbiamo al posto dei casi, e anche dall’assenza dei verbi ausiliari con cui noi dobbiamo farci bastare l’espressione di quelli primari. Questi sono i monosillabi la cui abbondanza serve a imprimere il genio poetico di una lingua come agile e scattante o dattilico.

   Ora, non prestando attenzione a questi fatti, Sir Philip Sidney [4], il professor Longfellow[5] e innumerevoli altre persone, più o meno moderne, si sono indaffarati per costruire ciò che loro supponevano fossero «esametri inglesi sul modello greco». La sola difficoltà fu che (persino tralasciando le melodiose masse delle vocali) questi signori non poterono mai avvicinare i loro esametri inglesi al suono greco. Sembrano greci? — questo dovrebbe essere stato l’interrogativo, e la risposta avrebbe potuto portare alla soluzione dell’indovinello. Se si mette una copia degli esametri antichi accanto a una copia (in caratteri simili) degli esametri del professor Longfellow, o del professor Felton [6], o di tutti i professori bostoniani che vanno dietro alla vergognosa pratica di comporre «sul modello greco», si vedrà che i secondi mediamente (gli esametri, non i professori) sono circa un terzo più lunghi all’occhio dei primi. A fare la differenza è la maggiore presenza di dattili. Ed è il numero più grande di spondei nel greco che nell’inglese, nella lingua antica più che in quella moderna, che ha fatto sì che mentre questi eminenti studiosi brancolavano nel buio in cerca di un esametro greco, che è un ritmo spondaico variato di tanto in tanto da dattili, inciampassero soltanto, a imperituro scandalo dei loro studi, su qualcosa che, a causa della sua lunghezza, potremmo ben definire un esametro feltoniano, e che è un ritmo dattilico interrotto raramente da spondei artificiali che non sono affatto spondei, e tirati stranamente dentro per i calcagni in tutti i tipi di punti più impropri e inopportuni.

   Ecco un campione dell’esametro di Longfellow:

Also the | church with | in was a | dorned for | this was the | season |

In which the | young their | parents’ | hope and the | loved ones of | Heaven |

Should at the | foot of the | altar re | new the | vows of their | baptism |

Therefore each | nook and | corner was | swept and | cleaned and the | dust was |

Blown from the | walls and | ceiling and | from the | oil-painted | benches. |

   Longfellow è un uomo di immaginazione, ma può lui immaginare che ogni individuo, con una giusta comprensione del pericolo di paresi mascellare, farebbe lo sforzo di torcere la bocca nella forma necessaria per l’emissione di spondei come «parents», e «from the», o di dattili come «cleaned and the», e «loved ones of»? «Baptism» non è per niente un cattivo spondeo — forse perché gli capita di essere un dattilo — di tutti gli altri, comunque, mi vergogno terribilmente.

   Ma questi piedi, dattili e spondei insieme, dovrebbero essere messi subito nella loro giusta posizione:

«Also the church within was adorned; for this was the season in which the young, their parents’ hope, and the loved ones of Heaven, should, at the foot of the altar, renew the vows of their baptism. Therefore, each nook and corner was swept and cleaned; and the dust was blown from the walls and ceiling, and from the oil-painted benches.»

   Ecco! — Questa è una prosa rispettabile, e non incorrerà mai nel rischio di veder rovinato il suo carattere da qualcuno che la scambi per poesia.

   Ma anche a lasciar passare questi esametri moderni come greci, e li considerassimo semplicemente nel loro carattere proprio di esametri longfellowiani, o feltoniani, o professorali, dovremmo ancora condannarli per esser stati combinati con un pregiudizio radicale sulla filosofia del verso. Lo spondeo, come ho osservato, è il tema del verso greco. La maggioranza degli esametri antichi comincia con spondei, per la ragione che lo spondeo è il tema, e l’orecchio ne è riempito come da un ritornello. Ora, gli esametri dattilici feltoniani hanno, allo stesso modo, i dattili per tema, e la maggior parte di essi comincia con dattili — che è del tutto molto appropriato se non molto greco — ma, sfortunatamente, l’unico punto in cui sono molto greci è precisamente quello in cui dovrebbero essere soltanto feltoniani. Chiudono sempre con quello che è inteso come uno spondeo. Per essere stupidi in modo coerente dovrebbero terminare in un dattilo.

   Che un esametro propriamente greco non possa, tuttavia, essere composto facilmente in inglese, è un’affermazione che sono ben lungi dall’ammettere. Penso che potrei io stesso cavarmela al riguardo. Per esempio:

Do tell! | when may we | hope to make | men of sense | out of the | Pundits |
Born and brought | up with their | snouts deep | down in the | mud of the | Frog-pond?
Why ask? | who ever | yet saw | money made | out of a | fat old |
Jew, or | downright | upright | nutmegs | out of a | pine-knot? |[8]

   Qui la corretta predominanza dello spondeo è preservata. Alcuni dattili non sono così buoni come avrei voluto, ma, nell’insieme, il ritmo è assai decente — per non dire del suo eccellente significato.



[1] Quinto Orazio Flacco (65 a.C.-8 a.C.), Carmina, Liber Primis, I, vv. 1-6: “Mecenate, della stirpe degli antichi re, o mia difesa o mio dolce decoro, vi sono alcuni a cui piace aver raccolto con il cocchio la polvere olimpica e la meta evitata dalle ruote frenetiche e la nobile palma che ci innalza fino agli dèi signori della terra.” (N.d.T.)

[2] Alfred Billings Street (1811-1881): “Il suo sentiero sinuoso, ferito, dagli incendi / tra i rami raggruppati a miriadi intorno.” (N.d.T.)

[3] Quinto Orazio Flacco, Carmina, Liber Primus, XXII, vv. 1-4: “Chi ha una vita onesta e non si è macchiato coi crimini, Fusco, non ha bisogno dei giavellotti della Mauritania, né dell’arco, né di una faretra carica di frecce avvelenate.” (N.d.T.)

[4] Sir Philip Sidney (1554-1586) poeta inglese.

[5] Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882) scrittore e poeta americano.

[6] Cornelius Conway Felton (1807-1862) è stato insegnate di Greco alla Harvard University.

[7] Versi del poeta svedese Esaias Tegner (1782-1846) tradotti da Longfellow in Children of the Lord’s Supper: “Anche la chiesa dentro era addobbata; perché questa era la stagione in cui i giovani, la speranza dei loro genitori, e i prediletti dei Cieli avrebbero rinnovato i voti del loro battesimo ai piedi dell’altare. Quindi, ogni angolino era spazzato e pulito, e la polvere era tolta dai muri e dai soffitti e dalle panche pitturate ad olio.” (N.d.T.)

[8] “Di’, quando potremo sperare di rendere assennati gli uomini senza i sapientoni / nati e allevati con i loro musi pronunciati nel fango dello stagno dei ranocchi? / Chiedi perché? Chi ha mai visto finora far soldi facendo a meno di ebrei vecchi e grassi, / o delle noci bell’e pronte venire dai pini?” (N.d.T.)



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