Educazione: come responsabilità e accoglienza.

Da Jessi

Diary of a Wimpy Kid

Filippo è un ragazzo di quattordici anni, molto più alto di quanto vorrebbe essere, molto più magro di quanto lo vorrebbe la mamma, molto meno concentrato di come lo vorrebbero i suoi insegnanti, molto meno brillante di come lo vorrebbe il papà.

Da ogni angolo, su Filippo, arrivano ventate fredde: “Ma perché sei così? Ma perché non sei come me? Ma perché non fai come faceva tuo padre? Ma che ti manca?”

Filippo si avvolge su stesso quando gli parli, non riesce a stare fermo, proprio come se quei venti gli arrivassero addosso ogni minuto e come se potessero pure gettarlo a terra -tanto è magro e lungo- se lui non li assecondasse, con quei suoi movimenti sinuosi da giungo fragile.

Perché non va bene, Filippo, così com’è? Me lo chiedo ogni volta che lo vedo, perché a me Filippo piace moltissimo.

E’ un ragazzo dolce e premuroso, sveglio anche se intimorito, gentile e simpatico. Non studia tanto, forse non riesce nemmeno a farlo: non è facile stare fermo ore -ma nemmeno minuti- su paginate di verbi greci quando hai troppi pensieri e troppe insicurezze che ti premono sul cervello.

Fosse per me, nei libri di pedagogia ci sarebbe più spesso scritto di praticare la sospensione del giudizio, l’ἐποχή. Certo, restando vero che su certe cose si può dire quello che si pensa, ma stando attenti. Perché Filippo, ad esempio, in certi giudizi crede in modo incrollabile, e fa di tutto, incosciamente, per renderli veri: Lui non è come suo padre, Lui non è come sua madre, Lui non riuscirà…

Accettare un figlio, accoglierlo a volte ci sembra riduttivo, in contraddizione, quasi, con il compito di ‘educare’ i più giovani.

Ma cosa significa educare? La nostra prof di greco del liceo faceva la sua l’etimo “Portare fuori dall’ignoranza,” e temo che la sua interpretazione abbia fatto scuola, anche se oggi è più accettabile l’idea che educazione significhi “Portare fuori competenze inespresse.

Intesa in questo modo, l’educazione non è in contraddizione con l’accettazione, con l’amore. Se ti voglio bene, come genitore o insegnante, mi assumo la responsabilità- e il piacere anche- di accompagnarti per portare fuori le potenzialità che puoi esprimere.

Accettando che siano quelle che hai e non quelle che vorrei per te.

Imparando ad amare, come suggerisce Jesper Juul, dall’amore che ci chiedono i piccoli appena nati, quando li guardiamo grati del loro arrivo, grati della loro esistenza, prima di iniziare a fare paragoni o richieste o giudizi:

“Pensiamo a due genitori che stiano guardando il loro neonato che dorme nella culla. Avvertono questo nuovo piccolo essere come meraviglioso e prezioso solo perché esiste. La maggior parte dei genitori mantiene questa sensazione per settimane, finché non inizia l’impulso a ‘correggere’ la loro creatura. Se l’impulso persiste, spesso mette in ombra la beatitudine iniziale, fino a minacciare il benessere del bambino. Solo se i genitori vengono messi di fronte all’orribile possibilità di perdere il figlio, si rendono conto che deve essere amato unicamente per quello che è.

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