Edward Stachura
Edward Stachura, poeta e prosatore - leggenda, “Sted” per gli amici, nacque il 18 agosto 1937 a Charvieu in Francia e morì suicida a Varsavia il 24 luglio 1979. Nel 1948 assieme alla famiglia partì per la Polonia, come tanti altri polacchi che in quel periodo facevano ritorno in patria. Giunse a Kujawy – una terra a lui sconosciuta, persone sconosciute, anche se consanguinee e fraterne, la lingua polacca che doveva perfezionare. La scuola. La maturità. Poi la tappa decisiva – inizio della carriera letteraria. Si iscrive alla Università Cattolica di Lublino, quindi gli studi interrotti, il trasferimento a Varsavia, le prime pubblicazioni. Riprende a studiare, si laurea in filologia romanza all’Università di Varsavia nel 1965. Comincia ad emergere da questo curriculum uno degli elementi fondamentali che caratterizzeranno la breve intensa vita del poeta, vale a dire il meccanismo della fuga incessante. La fuga da tutto ciò che – già conosciuto, ma non assorbito fino in fondo – si tramuta in lui in vincoli, nella routine, nella detestata Regola, in una prigione sotterranea, ciò che viene chiaramente espresso nel suo poema “La doppietta”, poema appunto della fuga, della caccia e della liberazione (o anche di una particolare accettazione del mondo).
Debuttò come poeta nel 1957. Negli anni 1962 e 1963 uscirono rispettivamente la raccolta di racconti ”Un giorno” e quella di poesie “Molto fuoco”. In entrambi questi lavori Stachura mira a superare i limiti fissati dalle convenzioni letterarie, a realizzare l’unità di scrittura e vita. In essa tratta questioni assai semplici, e per questo dimenticate o semplicemente non rilevate dagli altri nella vita quotidiana. E’ la scoperta della vita di tutti i giorni, di ogni suo istante, di ogni minimo frammento dell’esistenza. Ecco cosa scrisse Jarosław Iwaszkiewicz nella sua recensione al volume di racconti “Un giorno”, apparsa sul quotidiano della capitale “Życie Warszawy”: „…la raccolta ha suscitato in me entusiasmo ed emozione. E’ una prosa insolita, con una sintassi quasi elementare, il periodo limpido ha strane ripetizioni, la malinconia e il profondo intimo amore per la vita, la gioia per tutto ciò che essa arreca a questo cosiddetto vagabondo, la percezione del paesaggio polacco e della vita polacca di tutti i giorni, la nostalgia per l’amore e la fede nell’amore – tutto ciò è così giovane e pieno d’incanto…Chi può dire che non sia una bella prosa?”.
Nel 1966 uscì il secondo volume di racconti “Ondeggiando al vento”, e nel 1968 i poemi “Mi accosto a te” e “Gozzovigli la locusta nel giardino”. Seguirono quindi i romanzi “Vistosità assoluta” e “Il canto della scure”. Quasi ogni opera di Stachura non è un piatto preparato e servito, ma è una sfida e al tempo stesso una testimonianza. Una sfida lanciata ai letterati che limitano il compito del poeta alla composizione di belle frasi. Ed è una testimonianza di lotta per conferire forza alla parola poetica. Altre opere di Stachura che meritano di essere menzionate sono: il romanzo “Missa pagana”, uscito nel 1978, e il dialogo filosofico-poetico “Fabula rasa”, uscito l’anno dopo. Nella sua produzione poetica rientrano anche le traduzioni, principalmente dal francese e di poeti latino-americani, e le canzoni. Quest’ultime nella vita di Sted svolgevano un grande ruolo. Erano come un ago della bilancia , una tappa intermedia che preludeva spesso alla successiva nascita dei suoi poemi più belli. Le canzoni di Edward Stachura – come del resto tutta la sua produzione letteraria – sono un riflesso della singolare personalità dell’autore. Anche qui appare nel ruolo di protagonista il poeta-giramondo, il girovago tra la gente e la natura, il seguace della bellezza della vita, ma anche l’attento osservatore dei suoi lati oscuri. Il mondo di queste canzoni non è il facile mondo della concordia e della gioia, del sentimento e dell’armonia interiore. Se in esse c’è l’amore – da qualche parte sono sempre in agguato su di esso l’abbandono, il rimpianto, l’insicurezza; dietro l’appagamento c’è l’insoddisfazione, dietro il chiarore ci sono le tenebre.
Stachura era assai spontaneo nei suoi atteggiamenti. Era sensibile alle quesioni morali, ai valori supremi del Bene, della Bellezza e della Verità. Nei suoi scritti c’è solo quello che ha vissuto. Era nemico della menzogna, anche di quella letteraria. Dovunque apparisse – ricordano gli amici – egli portava quella freschezza e quel sorriso senza i quali non si può respirare normalmente, e che sono così rari nel mondo contemporaneo. Era diverso, esigente nei propri confronti e tollerante verso gli altri. Malgrado le apparenze era insolitamente delicato. Ha ingannato molti il suo abbigliamento da vagabondo-ribelle (jeans scoloriti, giaccone, la sciarpa attorno al collo e la chitarra in mano). Era uno di quelli che proclamano apertamente le proprie verità, procurandosi in tal modo molti seguaci, ma soprattutto molti nemici, che del resto hanno sempre circondato le persone geniali. Si opponeva a tutto ciò che è male, che è contro l’uomo. Dichiarava che la fonte di tutti i mali è la ricchezza. Intimamente non amava il denaro e se avesse potuto, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Lo usava dunque in minime quantità, disprezzava i facili guadagni, non lo interessavano i suoi diritti d’autore. Se non giungevano i compensi che gli spettavano, accettava il primo lavoro che gli capitava. Il lavoro, e soprattutto il lavoro manuale, i contatti con la gente vera, i numerosi viaggi in Polonia e all’estero (fu tra l’altro in Siria, Libano, Norvegia, Francia, Messico e Stati Uniti) – tutto questo era la fonte d’informazione essenziale per le sue opere. Visse soltanto per la letteratura, che considerava una grande missione. Negli ultimi anni della sua vita aveva “abbagliamenti mistici”, e sempre più inesorabile lo attaccava la malattia mentale. Cominciò a donare le sue cose ai poveri e più volte pensò al suicidio.
Stachura in Polonia è una leggenda. Gli sono stati intitolati concorsi letterari, incontri poetici e biblioteche pubbliche. Diversi suoi testi sono stati adattati per il teatro e le sue opere sono ripetutamente pubblicate, Nel 1982, a tre anni di distanza dalla morte, la prestigiosa casa editrice di Varsavia “Czytelnik” ha stampato la sua produzione letteraria in 5 volumi, che è diventata subito un bestseller.
Ecco un brano tratto dai diari dello scrittore:
“…Hai un cuore, dove c’è posto per qualcuno, quel qualcuno è in questo mondo, cercalo, cercatelo, scrivi un messaggio su un foglietto e domani, quando sarai sul treno, gettalo dal finestrino, ma cosa scrivere? – ciò che ti detta il cuore, niente di più:
Messaggio per qualcuno nel mondo
Se tu mi darai un po’ – io ti darò molto
Se tu mi darai molto – io ti darò molto di più
Se tu mi darai tutto – anch’io ti darò tutto
non c’è male, può andare, scrivi questo su un foglietto e domani gettalo dal finestrino del treno, gettalo pensando che deve arrivare a qualcuno, a quel qualcuno, e se deve andare distrutto, perché di certo sarà così, la pioggia, l’umidità del terreno, ecc. ecc., che almeno prima il vento lo trascriva nel cielo, questo messaggio del foglietto e che scorra col vento là, dove deve scorrere e arrivare scorrendo”.
Due testi di canzoni, una poesia e un racconto di Edward Stachura tradotti da Paolo Statuti
La nebbia s’è posata
La nebbia s’è posata e la città si risveglia
tonda fugge via la notte
qualcuno in silenzio qualcuno aspetta
le stelle sono a meno di un passo…
Un cane gironzola randagio nel campo
vola ai quattro venti la nostalgia
e la terra gira la sua incantevole gobba
gira, gira la ruota del destino…
Tu che piangi perché qualcuno possa ridere
basta così
scaccia i cupi pensieri, basta con le lacrime
lascia che tutto scompaia con la nebbia
perché un nuovo giorno è spuntato
un nuovo giorno…
Dal sonno soffocante la città riemerge
laggiù il sole sorge
un tram alla fermata è sbacciato come una rosa
fuggono le ombre nei portoni
tirano i carretti i lattai
sui tetti si alza la nebbia di sogni delle ragazzine
e la terra gira la sua incantevole gobba
gira, gira la ruota del destino…
Tu che piangi perché qualcuno possa ridere
basta così
scaccia i cupi pensieri
abbandona lo sguardo smarrito
che tutto questo sparisca con la notte
perché un nuovo giorno spunta,
perché un nuovo giorno spunta
un nuovo giorno…
La Bianca Locomotiva
Andava per i prati neri
Andava per il bosco arso
Superava le ceneri dei portoni
Scorreva sul ricordo delle città
La Bianca Locomotiva
Com’è giunta nel paese della morte
Spettro vivente vero prodigio
Qui tra vuoti futili versi
Qui dove c’è solo polvere nera
La Bianca Locomotiva
Oh di chi oh di chi è
Un così bel generoso gesto
Chi me l’ha mandata qui
Per fuggire da qui
Con la Bianca Locomotiva
Oh chi chi può essere
Senza di me chi non sa vivere
E di risuscitare m’implora
Di svegliarmi al caro richiamo
Della Bianca Locomotiva
Andiamo per i prati neri
Andiamo per il bosco arso
Superiamo le ceneri dei portoni
Scorriamo sui ricordi delle città
Con la Bianca Locomotiva
Dove frusciano le api i gorghi il fiume
Dov’è il sole e l’ombra degli alberi
Da quella che nella vita mi aspetta
Alla vita riportami riportami
O Bianca Locomotiva
* * *
Ho appena trascorso la notte e nessuno mi accoglie
nessuno nessuno mi dice – salve
rimani a colazione e a cena
e che il sonno ti possieda tra questo e quello
Ho appena trascorso la notte e nessuno mi accoglie
e ho lavorato sodo a cercare
a ricercare queste porte immortali
in cerca di queste porte perdute
Ho appena trascorso la notte e nessuno mi chiede
nessuno nessuno mi chiede – come sei passato
come anche tu sei passato tra il nero fogliame
Ho trascorso la notte dico e sono stanco
non mi ha visitato il fauno né l’angelo custode
e nemmeno la più piccola lucciola
Questo racconto di Edward Stachura è inserito nella mia antologia di racconti polacchi “Viaggio sulla cima della notte”, pubblicata nel 1988 da Editori Riuniti.
Vegliate su di me, amate aurore
- E’ lei?
– Sono io, signora.
– Accenda pure la luce, tanto non dormo.
– No, non occorre. Vado in cucina.
– Oh, Gesù, ha di nuovo i lividi, per questo non vuole accendere la luce.
– No, non voglio accendere la luce, perché i suoi occhi riposino al buio. Anche se non dorme. Così ho pensato oggi. E non ho i lividi. Vado in cucina per starmene un po’ seduto e mangiare qualcosa.
– Sulla stufa c’è la minestra, se la riscaldi. Sul fornello, perché la stufa deve essersi spenta da un pezzo.
– Va bene, grazie. A proposito. I soldi li avrò la settimana prossima. Quindi questa settimana non potrò ancora pagare.
– Peccato.
– Perché?
– Beh, perché anch’io prenderò la pensione la settimana prossima, e non è rimasto molto. Non so se ce la faremo.
– Non lo sapevo. Domani cercherò di portare qualcosa. Buonanotte, signora.
– Davvero non ha i lividi, non è per questo che non vuole accendere la luce?
– No, sul serio. Buonanotte.
– Non attacchi briga con quella banda dell’altro quartiere. Sono giovani delinquenti e sono capaci di tutto.
– Certamente.
– La prego. E non resti in cucina a lungo. Lei dorme così poco. Io sono io. Non ci riesco. Ma lei dovrebbe dormire almeno otto ore al giorno.
– Certamente.
– Ecco, vede. Mi dà ragione ma continua a fare di testa sua. Buonanotte.
– Buonanotte, signora. La stimo molto.
Me ne andai in cucina e accesi la luce. Misi la minestra sul fornello, attaccai la spina e mi sedetti sullo sgabello. Silenzio. L’intero palazzo dormiva già. Erano quasi le undici e mezza. Tutti già dormivano profondamente. Sui tetti si levavano i sogni. C’era un silenzio meraviglioso. La sveglia ticchettava. Nel pentolino la minestra cominciava a sfrigolare e ad odorare. Mescolai, perché non si attaccasse. Tagliai un po’ di pane, aspettai ancora un po’ per la minestra, quindi posai il pentolino sul tavolo e misi sul fornello l’acqua per il tè.
Avevo fame. Tornavo da una ronda. Per alcune ore avevo girato e rigirato attorno al punto dove sabato mi avevano pestato quei quattro coi capelli piatti. Per quale motivo, non vale neanche la pena di parlarne. Per niente. Per l’innocenza, come si dice. La sera era vicina, cioè il tardo pomeriggio stava entrando nella sera. Del resto non è importante. Mi hanno pestato tranquillamente su una grande strada, sotto gli occhi di tutti. Nessuno ha mosso un dito. Non ci ho fatto caso. Non so, forse a più di uno sono tremate le mani o un misero rimasuglio di coscienza, forse più di uno ha inghiottito perfino la saliva, per intervenire. Non ci ho fatto caso. Ha vinto la saggezza delle saggezze, l’antica regola infallibile e ben sperimentata, che è meglio non intromettersi. Molto meglio. Forse una moglie tratteneva addirittura il marito per la manica, sussurrando una candida norma di vita: lascia perdere, resta qui, verrà la polizia, ti prenderanno, ti registreranno e ti faranno testimoniare in questura oppure in tribunale, e poi quelli possono vendicarsi, ricordati che hai me e i bambini. Così è stato, oppure non mi sbaglio di molto. Proprio così, mi hanno tranquillamente pestato sulla strada, sotto gli occhi di tutti. Poi se ne sono andati e io mi sono alzato, mi sono tirato su lentamente ed era come se mi tisassi su non dalla terra, ma dall’acqua. Mi sono fatto forza e sono arrivato pian piano alla fontana sulla piazza, dove mi sono lavato con un fazzoletto, che ha cambiato completamente colore. Ero tranquillo come di rado. Una strana calma mi aveva preso, come un lusso. Non so, ma anziché sentirmi peggio, mi sentivo meglio. Mi sentivo bene. Non pensavo ancora alla vendetta , non pensavo a niente. Non mi doleva nulla e non pensavo che domani tutto avrebbe cominciato a dolermi: la testa, le ossa, sarebbero saltati fuori i lividi e nuove macchie scure mi avrebbero turbato la mente. Non pensavo a questo, né alla vendetta, non pensavo a niente. Una certa calma si era impadronita di me ed era come se avessi dimenticato di vivere. Era sabato. Mi sentii così bene abbastanza a lungo. Qualche buona ora estratta dalla corrente. Poi tornai alla pensione e soltanto allora mi ribollì il sangue. Ma era già domenica.
Oggi è la mezzanotte dal mercoledì al giovedì e sto finendo di mangiare. Ho pulito il piatto con il pane e l’ho messo nel lavandino. Mi sono riseduto sullo sgabello, ho tirato fuori una sigaretta e l’ho accesa lentamente. Ancora mi dolgono le dita della mano destra, la spalla destra e la schiena. Ma, lentamente, torniamo alle origini. C’è un silenzio meraviglioso. La sveglia ticchetta, come se misurasse non il tempo, ma il silenzio. Per il momento sono libero dal tempo. Per il momento il tempo non m’interessa. M’interessa quella faccia che oggi finalmente ho visto, dopo una giornata di appostamenti e a una certa ora, ma dico tanto per dire, perché per il momento per me il tempo non conta e non conterà finché non avrò sistemato ciò che devo sistemare. Oggi finalmente l’ho visto. Lui. Il primo a gettarmi sull’erba. Erano in due. Non so se anche l’altro mi ha preso a calci. Se era uno di quelli. Hanno camminato un po’ insieme, poi si sono salutati e divisi. Ho seguito il mio uomo. E ho scoperto dove abita, fratello.
Adesso so ciò che per il momento deve bastarmi, posso quindi fumare tranquillamente, bere il tè e pensare a tutt’altra cosa. A tutta un’altra cosa. Al fatto che ancora non sono sconfitto. Non mi riferisco alla circostanza che mi hanno percosso, che sabato mi hanno pestato e che la settimana prossima, forse anche di sabato, appena arriveranno i soldi e avrò pagato il conto per il vitto e l’alloggio, salderò, pagherò anche l’altro debito: percosso e pestato sarà un altro. Non mi riferisco a questo, benché così possa sembrare. E’ solo apparenza. Ciò che penso adesso, fumando la sigaretta, bevendo lentamente il tè, è una cosa completamente diversa. Posso essere pestato ancora dieci volte e posso riuscire a vendicarmi solo una volta o nemmeno una, e lo stesso dirò che ancora non sono sconfitto, perché non si tratterà di questo. Non di tali percosse. Non di tale lotta. E nemmeno di quella in cui cado e sento l’organo sonare. Perché qui non si tratta nemmeno della morte, – come ti amo, vita mia, – ma proprio della vita, di questo passaggio verso.
Di questo voglio parlare adesso. E’ un racconto del tutto nuovo.
Ancora non sono sconfitto. Ancora no, dico. Ancora a lungo no, e poi neanche per sogno. Non ho un cattivo presentimento. Non mi zufolano le orecchie. Finché sarò quello che sono, non sarò sconfitto. Sarò indistruttibile. Lo so. Forse vedrò e udrò ancora molto, forse imparerò ancora parecchio, forse molte cose cambieranno, forse cambierò il mio vestito preferito, forse cambierò parere su due o tre cose, forse cambierò perfino il mio giudizio definitivo su una sola cosa. Tutto questo è possibile, non sono un fanatico, non sono di scorza dura, la mie visioni sono smisurate in tre direzioni, forse mi aspetta il fondo, o forse mi si apriranno davanti grandi spazi e altezze addirittura inimmaginabili, tre direzioni. Non dico di no, tutto questo è possibile, non so cosa mi aspetta, cosa mi accadrà, mi può accadere di tutto, ma sarò sempre e continuamente così come sono.
Fumo e bevo lentamente il tè. C’è un silenzio meraviglioso. Mi è difficile dire come sono. E come sarò sempre e continuamente. Sarebbe difficile con due parole. Ma anche soltanto con due parole sarebbe possibile. Sarebbe la cosa più facile. Perché quante più parole usassi, tanto peggio sarebbe, tanto più sarebbe impossibile, benché sembri il contrario. Ma così sembra soltanto. E’ solo apparenza con la lingua di fuori. A lungo, ad esempio, ho pensato che quante più ore, giorni, settimane, mesi e anni avrò alle spalle, tanto più saprò e tutto dovrà rischiararsi. A lungo ho pensato così, a lungo mi sono detto che più fossi andato avanti, più cose avrei saputo e tutto si sarebbe schiarito. Perché sembrava come se dovesse essere così. Ma è solo apparenza, con la lingua beffardamente di fuori.
Perché in realtà non è così. Niente affatto. Mi si è schiarito ben poco con gli anni e ben poso continua a schiarirmisi. Quante nuove macchie scure appaiono. Vegliate su di me, amate aurore, luminosi mattini. Appena capisco una cosa dopo profondo racoglimento, lungo tempo e scorrere di acque, appena capisco una cosa, al suo posto saltano subito fuori dieci nuove macchie scure, dieci ombre si posano subito su chi se n’è liberato. Vegliate su di me, amate aurore, perché sguazzo nell’oscurità che infittisce.
Ma sempre sarò così come sono. E ripeto che mi è difficile dire come sono. E sarò. Con due parole è difficile, e con molte parole è ancora peggio, perché ad ogni parola si aprirebbero nuovi canali e labirinti e non finirei mai. Ne uscirebbe fuori un moto perpetuo. Ciò che appunto adesso mi sta succedendo. Una spirale interminabile. Un labirinto.
Mi si chiarisce ben poco col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi e degli anni. Da una parte sono un po’ più saggio, dall’altra sono sempre più stupido, perché vedo che ciò che ho capito dopo profondo raccoglimento e molte perdite non è altro che una piuma fluttuante in confronto a ciò che è e gira. Ben poco mi si schiarisce con l’andare del tempo, parlo, e ho davanti agli occhi cerchi sempre più grandi. Spalanco sempre di più gli occhi, ma non posso abbracciarli.
Tre domande come esempio. Tre normali semplici domande. Ad esempio, cos’è la musica? Cos’è questa musica? Cos’è che suona? Non chi suona e cosa suona: l’arpa, il violino, la tromba, il tamburo. Non si tratta di questo, soltanto cos’è che suona, che ora vola in alto, ora in basso, ora tutto si sparge, striscia l’intera struttura e di colpo tutto si solleva, il vento, le foglie tornano sugli alberi, i portoni si sollevano, gli archi, le braccia da sole si slanciano in alto, un pianto di gioia scuote le fondamenta. Oh!
E chi sono quelli che la mattina s’incontrano alla stazione davanti a una birra e ci salutano: «Ciao, Mundek. Dove sei stato tutta la notte?» Dunque chi sono costoro? Dove girano di notte? Dove siete stati tutta la notte?
E che cos’è, cos’è la forza di un uomo debole?
Erano tre domande. Soltanto, appena, unicamente tre domande fatte di numeri infiniti. E semplici. O piuttosto, molto semplici. Non ricercate. Non di quelle terribili. Di quelle che penetrano in profondità e rodono il cervello.
Si sa ben poco. Io so ben poco. E tuttavia penso che altri sappiano ancora di meno. E penso come si possa parlare così come alcuni parlano, quelli che sanno tutto, che hanno una risposta per tutto e che volta per volta generalizzano, tranquillamente, con disinvoltura, per decorazione. Io ascolto. Io ascolto e dubito, anche se sono giovane. Ma io penso che un giovane non ha troppe risposte e che non si può, non è possibile generalizzare volta per volta, perché io penso che la generalizzazione è qualcosa di più della verità, è un’intera catena, e che si può generalizzare una volta sola nella vita, sul letto di morte, ma anche allora è meglio di no.
Si sa ben poco. Io so ben poco in questa prima ora dopo mezzanotte. Ma so che bisogna imparare, e so che devo essere così come sono. Altrimenti sarò sconfitto. Altrimenti soccomberò. Per me la vita soccomberà. E, lo ripeto, mi è difficile dire come sono. E come devo essere. Con due parole è difficile, e con più parole: è una spirale senza fine.
E’ passata l’una, cominciano le due. Dovrei andarmene a letto, perché domattina devo cercare di guadagnare qualcosa. Penso che andrò alla torbiera fuori città. Ho visto là i carrettieri che trasportano la torba al vivaio comunale, che poi la sparge sui prati dove il terreno è magro o c’è soltanto sabbia e l’erba non vuol saperne di crescere. Quindi vi si butta sopra un bel po’ di torba e soltanto dopo seminano l’erba. Andrò là. Vi ho conosciuto un vecchio. Gli caricherò il carro e lui dovrà andare soltanto avanti e indietro. Farà sei o sette viaggi. A trenta zloty a corsa, perché è un lavoro a cottimo: in sette ore circa riceve da centottanta a duecentodieci. Se io gli carico il carro, può fare due viaggi extra. Quindi guadagnerà di più, anche togliendo un po’ di zloty per me. E poi non carica lui, anche se la torba non è come il carbone, comunque sia. Recentemente si è lamentato con me, dicendo che a tenere il cavallo in città ci si rimette, non conviene. E’ finita un’era. Si guadagnano duecento zloty al giorno, di cui quasi cento se ne vanno per il cavallo, per tenerlo in forma. La biada: quattrocento zloty al metro. La paglia: centottanta al metro. Il fieno: due zloty al chilo. Non c’è più niente a buon mercato. In campagna è tutta un’altra cosa. In campagna adesso, in genere, si arricchiscono tutti. Adesso sono dei signori. E senza cavalli. Fanno tutto le macchine. In campagna adesso la gente è come se vincesse al lotto.
L’una e mezza. Dovrei andarmene a letto. Ma è un peccato. E’ un peccato andarsene così, in quello straccio di letto, sotto l’imbottita e sprofondare in un sonno selvaggio, morire per qualche ora, lasciare il nuovo giorno già iniziato, mentre prima di mezzanotte è un peccato lasciare il giorno non ancora finito. E’ un peccato, dico, morire per alcune ore, lasciare tutto questo privo di me, questa vita verso l’alto e verso il basso spaventosa, stupenda, questo mondo bianco e nero. E’ un peccato, dico.
(C) by Paolo Statuti