EFFETTO DOMINO - Rubrica di approfondimento tematico
Foto di Marco Landi
Recensione di Emanuela D’AlessioMorte e scomparsa non coincidono in letteratura
Scomparsa è sinonimo di fine, morte, decesso, estinzione, dissolvimento, sparizione. Ma la morte è veramente sinonimo di scomparsa?
La domanda può risultare oziosa di fronte all’evidenza della realtà, grondante di morti premature, violente o semplicemente naturali che separano in modo inequivocabile l’essere dal non essere più. È nell’ordine delle cose confrontarsi con la fine della vita, quando il vuoto si sostituisce al pieno e nulla può opporsi o rimediare. Come diceva Blaise Pascal: «Tutto quello che so è che devo morire, ma quello che ignoro di più è questa stessa morte che non posso evitare».
La domanda, però, diventa pertinente al cospetto della letteratura, luogo privilegiato di quel realismo “impossibile”, come ci ricorda Walter Siti, dove i confini si scavalcano, le regole si infrangono, dove niente è reale e quindi possibile. E la morte diventa occasione per rivisitare sé stessa e i suoi significati, per interpretare la vita, per capovolgere le prospettive, per entrare in una dimensione della scomparsa diversamente percepita. Scompaiono i limiti tra il mondo dei vivi e quello dei morti (ammettendo che ne esista uno) e tutto si mescola e si confonde.
Un diario straniante, dove il macabro si alterna alla parodia, senza remore e pudori, come ci ha abituati la venticinquenne catanese fin dal suo esordio di Settanta acrilico, trenta lana. È il diario di Dorotea Giglio che racconta la sua morte, ma soprattutto la sua non-vita o “diversamente-vita”, indugiando nella meticolosa quanto disgustosa descrizione del disfacimento del corpo, unica evidente conseguenza del morire.
«Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa. Il 23 luglio alle 15.29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma alla menta e sangue». Ma la morte non esiste, ci dice Viola Di Grado attraverso la sua Dorotea, «non nel senso in cui abbiamo bisogno di crederlo. Non esiste una morte che separa, una morte che accade ed è già finita, esiste un inizio e una continuazione. Niente si disperde in senso netto e definitivo». Mentre sottoterra il corpo si decompone i morti continuano a «vivere» tra i vivi, invisibili e immateriali ne spiano la quotidianità: «Guardo gli altri vivere. Li riconosco, li capisco, ho tante parole per loro, ma loro non mi vedono più».
Dorotea non vuole staccarsi dalla vita sebbene sia entrata in un’altra dimensione al di là dell’esistenza, prova un’ambigua nostalgia di ciò che respira, cresce, gioisce e soffre, continua a “vivere” da ombra e fantasma cercando con ostinata disperazione di farsi notare e percepire. A volte ci riesce, ma il risultato è desolante perché i vivi non sono pronti a dialogare con i morti, perché il confine è troppo netto e assoluto per essere varcato senza traumi.
Lo stesso accade per la ragazzina Susie, protagonista e voce narrante del celebre Amabili resti di Alice Sebold, pubblicato con grande successo nel 2002 (sempre da e/o). «Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973. Negli anni Settanta, le fotografie delle ragazzine scomparse pubblicate sui giornali mi somigliavano quasi tutte: razza bianca, capelli castano topo. Questo era prima che le foto di bambini e adolescenti di ogni razza, maschi e femmine, apparissero stampate sui cartoni del latte o infilate nelle cassette della posta. Era quando ancora la gente non pensava che cose simili potessero accadere».
A undici anni dalla pubblicazione il libro della Sebold ha perduto le caratteristiche del caso editoriale, rileggendolo oggi stentiamo a concordare con Jonathan Franzen che lo definì «un romanzo di grande autorità, fascino e coraggio». Senz’altro coraggiosa, comunque, la scelta non solo di un incipit con la morte violenta di una ragazzina di quattordici anni, stuprata e fatta a pezzi da un maniaco che resterà impunito, ma anche di trasformare la vittima in voce narrante per raccontare che cosa accade a chi resta dopo la scomparsa e a chi scompare. Medesimo coraggio per Viola Di Grado che, sempre con la voce di una morta, affronta temi altrettanto scomodi e scorretti come il suicidio, il degrado e l’assenza della famiglia, la solitudine e l’angoscia che sembrano gli unici sentimenti a prevalere tra i vivi.
I due libri proseguono su strade diversissime, a separarli l’evoluzione narrativa e soprattutto la cifra stilistica. Se Alice Sebold ci aveva incuriositi con una scrittura lineare e piana, semplice e ingenua, la Di Grado ci intrattiene fra le pagine per motivi opposti, mescolando con scioltezza una scrittura sofisticata e letteraria con un immaginario da entomologa, una sensibilità barocca con certe ambientazioni gotiche. Riesce ad alternare, senza apparente compiacimento, splatter e poesia.
Dorotea non abbandona i luoghi della sua quotidianità, Susie osserva la vita da una prospettiva di alterità, da un luogo chiamato Cielo. Se Dorotea controlla meticolosamente lo stato di decomposizione del proprio corpo, Susie invece ne ha perduto il controllo nel momento in cui l’assassino l’ha uccisa. Il suo cadavere non sarà mai più ritrovato, motivo di ulteriore sofferenza per i suoi famigliari ma anche per sé stessa.
Eppure in entrambi i libri l’intento sembra essere lo stesso: far percepire l’effetto straniante che il punto di vista della morte restituisce all’esistenza individuale e collettiva. Dorotea, finalmente staccata dal corpo-prigione, si disperde nell’aria, libera e astratta senza neanche più i confini angusti dell’io, si dissolve nell’universo eppure mantiene una coscienza individuale e una memoria. È priva di desideri ma prova sentimenti e rimorsi, torna come ombra a visitare la casa della madre, del fidanzato, la propria lapide. Anche Susie si sente incommensurabilmente libera e allo stesso tempo prigioniera in quel Cielo da dove osserva i suoi famigliari, il loro dolore e il loro diverso modo di viverlo. Entrambe osservano e si avvicinano con ambigua nostalgia alla vita perduta, a comportamenti troppo umani, provano a stringere in un abbraccio immateriale coloro che hanno amato, nell’assurda speranza di un ricongiungimento che le possa far tornare percepite.
Un rimpianto della vita, un inno alla vita. È di questo che si tratta, un medesimo sussulto di speranza, una testimonianza oltre il convenzionale per confermare che in questo vivere nella morte esista qualcosa di vitale.
Si continua a vivere, a dispetto della putrefazione di un corpo o della sua assenza, si continua a vivere nel dolore di chi ha amato e perduto la persona scomparsa, si continua a vivere anche quando la morte è diventata solo un ricordo.
Cuore cavo – Viola Di Grado
edizioni e/o - 2013
pp. 176, € 16,00
Viola Di Grado ha venticinque anni. È nata a Catania e ha studiato lingue e filosofie dell’Asia orientale a Torino e Londra. Il suo primo romanzo, Settanta acrilico trenta lana, libro-rivelazione del 2011, è stato premiato con il Campiello Opera Prima e il Rapallo Carige Opera Prima ed è stato già tradotto in otto paesi. Si descrive così: «Sto studiando lo svedese per poter vedere Bergman senza sottotitoli. Ho vissuto in tantissimi posti estremi. A Londra con dodici russi e polacchi in una villa vittoriana in disfacimento, in un quartiere silenzioso sulla collina. In Giappone a due passi dalla tomba della mia scrittrice preferita, Murasaki Shikibu, ero l’unica a portarle i fiori. In Cina la mia finestra dava su una strada sfondata, un precipizio. A Torino stavo in una casa con un buco enorme in salotto da cui entravano il gelo e la neve, con una ragazza piena di amici immaginari».
Amabili resti – Alice Sebold
Traduzione di Chiara Belliti
edizioni e/o – 2002
pp.372, € 14,50
Alice Sebold è nata nel 1963 a Madison nel Wisconsin. Nel 1999 ha pubblicato Lucky (e/o 2003) un libro di ricordi sullo stupro subito nel 1981, quando studiava all’Università di Syracuse. Nel 2002 ha scritto The Lovely bones (Amabili resti) il più grande successo editoriale di un’opera prima, circa due milioni di copie vendute negli USA, da cui il regista Peter Jackson ha tratto l’omonimo film uscito in Italia nel 2011. Nel 2007 e/o ha pubblicato La quasi luna. L’autrice vive in California con il marito, lo scrittore Glen David Gold.