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Egitto e Israele alla battaglia del gas

Creato il 29 febbraio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Il clima di incertezza e instabilità politica che caratterizza l’Egitto sta avendo implicazioni di sicurezza energetica particolarmente controverse. La vulnerabilità delle infrastrutture energetiche emerge chiaramente nei ripetuti attacchi all’Arab Gas Pipeline, il gasdotto che, attraverso il Sinai, trasporta(va) il gas a diversi paesi dell’area mediorientale. L’infrastruttura permette all’Egitto di esportare circa cinque miliardi di metri cubi di gas all’anno, in particolare verso Israele e Giordania. L’ennesimo attacco all’infrastruttura avvenuto a inizio febbraio, ha nuovamente interrotto le forniture rendendo ancora più urgente la ricerca di alternative più sicure e affidabili.

Alta tensione

Al 2010, le riserve provate di gas dell’Egitto ammontavano a 2,2 migliaia di miliardi di metri cubi (mld mc); i mercati di destinazione delle esportazioni egiziane erano Israele (2,10 mld mc), Giordania (2,52), Siria (0,69) e Libano (0,15). Tuttavia, l’offerta di gas è stata interrotta ben dieci volte nel corso del 2011, a causa dei numerosi sabotaggi che hanno reso il gasdotto inutilizzabile per più di 200 giorni. I più colpiti dal blocco delle forniture sono stati Israele, che importa dall’Egitto il 40 per cento del consumo nazionale di gas, e la Giordania la cui dipendenza raggiunge l’80 per cento.

Arab Gas Pipeline
Ad esacerbare ulteriormente il quadro ha contribuito la decisione del governo egiziano di rivedere al rialzo i prezzi del gas. Mentre la Giordania ha accettato la rinegoziazione dei contratti, che ha determinato un sostanziale aumento da due a oltre sei dollari per mille piedi cubi, Israele ha rifiutato di riconsiderare i prezzi e, ad oggi, non ha in atto alcuna trattativa in tal senso.

La situazione, tuttavia, non sembrerebbe essere particolarmente critica per Israele, che può avvalersi delle scoperte di nuovi giacimenti ricchi di gas al largo delle sue coste. Nonostante l’importanza di questi giacimenti, i danni conseguenti all’interruzione del flusso di gas nel breve periodo sono inevitabili; secondo fonti governative, il costo del sabotaggio potrebbe raggiungere i quattro miliardi di dollari se le forniture non saranno totalmente ripristinate entro l’entrata in produzione del primo campo.

Il giacimento Tamar dovrebbe diventare operativo a metà 2013 e fornire alla compagnia statale Israel electric corporation (Iec) circa 3 miliardi di metri cubi all’anno per almeno quindici anni. Considerate le riserve provate del sito, che ammontano a circa 255 miliardi di metri cubi, sono in via di definizione anche opzioni per esportare il gas, ma si dovrà attendere ancora un mese per conoscere quanto deciso dall’apposito comitato governativo. In ogni caso, tra le proposte papabili sembrano esserci il trasporto del gas nel porto di Eilat (Mar

Giacimenti di gas in Israele
Rosso) per esportarlo come Gnl, la costruzione di un terminal di liquefazione nel Mediterraneo o il trasporto in Europa tramite la Grecia, ipotesi che per il momento sembra però poco praticabile .

Una possibilità, invece, più volte declamata è stata quella di esportare il gas, nell’ordine di 2-3 mld mc/anno, in Giordania, ma in tal senso non è stato ancora aperto alcun negoziato. L’altro grande giacimento è Leviathan, che pur avendo riserve provate di gas pari a 453 mld. mc, non sarà in funzione prima del 2017 e non potrà perciò competere alla messa in sicurezza delle forniture, se non nel medio periodo.

Crisi giordana

Un recente rapporto della Commissione per la regolazione elettrica giordana sottolinea che il paese si trova in una grave crisi energetica; la continua inaffidabilità delle forniture di gas dall’Egitto e la necessaria compensazione con materiali più costosi, come il diesel o l’olio combustibile, determinerà un costo addizionale per le casse statali di circa 2,4 mld. di dollari nel 2012. A questo si deve aggiungere il salatissimo conto energetico dell’anno passato, che il calo dell’offerta di gas (dai 6,2 mln. mc al giorno nel 2010 ai 2,2 mln. mc al giorno nel 2011) ha fatto schizzare a 5,6 mld. di dollari.

Il paese stia pagando l’assenza di una politica di diversificazione che l’ha reso del tutto dipendente dalle forniture egiziane. La strategia del governo, incentrata sulla ricerca di vie alternative, non è tuttavia spendibile nel breve periodo a causa della mancanza di infrastrutture.

Nonostante la disponibilità di Israele a fornire il proprio gas dalla metà del 2013, la soluzione più veloce sembra essere l’importazione di Gnl dal Qatar; il governo ha recentemente costituito un comitato tecnico congiunto per valutare la costruzione di un terminale di rigassificazione nel porto di Aqaba (Mar Morto) che, in ogni caso, richiederà vari mesi prima di diventare operativo.

Intanto, il paese ha iniziato a muoversi su progetti che riguardano la produzione di shale oil, di cui la Giordania possiede riserve stimate intorno ai 500 mld. di barili di petrolio equivalente (bpe), con l’obiettivo di raggiungere la quota del 14% entro la fine del decennio. La Giordania, va ricordato, possiede anche notevoli riserve di uranio, per oltre 140 mila tonnellate, e intende costruire il primo impianto nucleare da mille MW entro la fine del decennio, con l’obiettivo di produrre il 30 per cento dell’elettricità da energia nucleare entro il 2030-2040.

Dipendenza e opportunità

Nonostante le opportunità di investimento e le nuove vie di diversificazione, nel brevissimo periodo permane l’emergenza e, nel caso della Giordania, una vera e propria crisi. Al di là dell’uso di più costosi combustibili alternativi, i due paesi mantengono una forte dipendenza dal gas egiziano. I progetti in ballo fanno ben sperare per il futuro energetico giordano ma, come ha ricordato il responsabile gas del governo, Marwan al-Bakain, “per i prossimi due anni la Giordania non ha altra scelta che il gas egiziano”.

Israele ha il potenziale per divenire, nei prossimi anni, un importante esportatore di gas, ma resta la difficoltà nel trovare, almeno fino all’entrata in produzione di Tamar, un’alternativa affidabile ed economicamente sostenibile.

A complicare il quadro si aggiunge lo stallo nelle relazioni tra il governo egiziano e i beduini del Sinai, considerati i responsabili degli attacchi ai gasdotti. Il 13 gennaio, durante un incontro tra le parti, i beduini hanno dichiarato di non riconoscere un parlamento senza una loro rappresentanza e hanno minacciato il ricorso alle armi contro il Consiglio supremo delle forze armate egiziano.

Il governo non sembra tuttavia disposto a scendere a patti con questa riottosa minoranza, lasciando il campo aperto a nuove rivendicazioni e attentati. Prospettiva certamente non auspicabile per Israele e Giordania, ma poco confortante anche per l’Egitto che, senza gli introiti delle esportazioni di gas e in vista della revisione al rialzo dei prezzi, perde una fondamentale fonte di guadagno per il rilancio di un’economia instabile, con un alto debito pubblico e un’industria turistica che fatica a riprendere quota.


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