di Giuseppe Dentice
A fugare qualsiasi dubbio su quella che si annunciava da tempo una vittoria scontata, il 3 giugno è giunta l’ufficialità da parte dell’Alta Corte Elettorale del Cairo: Abdel Fattah Saeed Hussein Khalil al-Sisi è l’ottavo Presidente della Repubblica egiziana. Egli succede ad Adly Mansour, il Capo di Stato ad interim voluto dallo stesso ex Feldmaresciallo all’indomani del golpe militare contro l’islamista Mohamed Mursi il 3 luglio 2013. Un esito prevedibile e atteso sin dalla vittoria del fronte del SI al referendum sulla nuova Costituzione egiziana dello scorso 14 gennaio e visto dallo stesso al-Sisi come un voto sulla sua persona.
I dati ufficiali raccontano di un successo ampio: al-Sisi ha ottenuto il 96,91% dei suffragi battendo il suo unico avversario, il nasserista e leader della sinistra laica Hamdeen Sabbahi, che ha ottenuto appena il 3,9% dei consensi. Le prime reazioni ufficiali da ambo le parti sono state di grande commozione da parte dell’ex militare e di rabbia ma di correttezza istituzionale da parte di Sabbahi.
A congratularsi per primo con il neo eletto è stato l’alleato di ferro saudita, il quale da un lato ha salutato il voto per al-Sisi come una «giornata storica», dall’altro ha tenuto a ricordare anche la gravità delle condizioni dell’economia egiziana chiedendo l’organizzazione di una conferenza dei donatori internazionali per l’Egitto. Anche gli Stati Uniti si sono già detti «pronti a lavorare con il nuovo governo», sollecitando, però, «riforme urgenti su diritti umani, giustizia e trasparenza». Di parere completamente opposto quello della Fratellanza Musulmana, unica antagonista alla nuova autorità al vertice di Heliopolis. Secondo Amr Abdel Hady, esponente dell’Alleanza Nazionale per il Sostegno della Legittimità (NASL) – piattaforma legata all’Ikhwan e al destituito Mursi, che riunisce le diverse anime islamiste – «una nuova alleanza tra varie entità e forze rivoluzionarie contrarie al potere militare vedrà la luce nelle prossime ore». Lo stesso Hady ha poi precisato che verranno indette per il 6 giugno nuove marce di protesta al Cairo e a Giza contro il mancato processo di inclusione e di pacificazione promesso dal neo-eletto Presidente.
Nonostante si sia presentato come il garante dell’ordine, a ridimensionare l’ampio consenso conseguito da al-Sisi è stato proprio il mancato plebiscito popolare. Se in occasione dell’elezione di Mursi (12 luglio 2012) si era registrata un affluenza pari al 52% su 53 milioni di aventi diritto, la partecipazione alle consultazioni del 26-28 maggio scorso si è fermata al 47,45%, ossia 26 milioni del 2012 contro i 25.578.233 odierni. Un dato, dunque, ben al di sotto di quello storico raggiunto appena due anni prima dalla Fratellanza Musulmana. A nulla è valso il tanto contestato prolungamento del termine di votazione, tantomeno la multa di 500 sterline egiziane (circa 70 dollari) nei confronti di tutti coloro che si non sono recati alle urne, o, ancora, la concessione di un giorno di ferie (il 28 maggio è stato proclamato per l’occasione giorno di festa nazionale) per permettere una maggiore affluenza.
Proprio da qui bisogna partire per fare una doppia considerazione: una sul voto, l’altra sul processo democratico.
A distanza di undici mesi esatti dal golpe militare, gli Egiziani hanno dapprima auspicato il ritorno sulla scena dell’esercito; poi l’entusiasmo si è raffreddato (soprattutto tra i laici e liberali) quando sul finire del 2013 è stata intravista una nuova forma di regime autoritario con la proclamazione di nuove leggi sulla restrizione della libertà di manifestazione; infine, disillusi e forse anche disincantati hanno votato senza grande convinzione l’unico candidato in grado di garantire stabilità al Paese. Ne è scaturita dunque una vittoria dimezzata per al-Sisi che sull’affluenza puntava tutta la sua legittimità politica. L’obiettivo era superare i 26 milioni di elettori del 2012 del ballottaggio tra Ahmed Shafiq e Mursi: un’alta percentuale di elettori avrebbe dato all’ex militare la migliore risposta contro i suoi detrattori che considerano nella vittoria di al-Sisi la fine del processo rivoluzionario, nonché la restaurazione di antichi giochi di potere (non solo quello dei militari ma anche il ritorno sulla scena della magistratura e degli uomini d’affari legati all’ex raìs Mubarak).
Un altro punto discutibile è quello relativo al processo democratico ancora debole. Sebbene gli osservatori nazionali e stranieri accreditati in Egitto abbiano confermato che «si è trattato di un processo di voto libero» e che «si è svolto in modo regolare», è innegabile che dapprima il posticipo di un’ora della chiusura dei seggi e successivamente il prolungamento dell’apertura delle sezioni elettorali anche per tutto il mercoledì 28 maggio rappresentano un inopportuno e pericoloso handicap al processo democratico. I dati sull’affluenza sono stati tra l’altro messi in dubbio sia dagli attivisti di Sabbahi – alcuni dei quali arrestati poco prima e durante le operazioni di voto – sia da istituti statistici indipendenti, come Takamol Masr, secondo cui l’afflusso alle urne sarebbe stato solamente tra il 13-21%. Se a ciò si aggiungono gli arresti degli oltre 16.000 dissidenti islamisti da luglio 2013 e le oltre 700 condanne morte comminate nei loro confronti dalle autorità (ma fino ad ora non eseguite), i primi passi della vecchia-nuova amministrazione non iniziano nel migliore dei modi. Libertà e giustizia sociale erano le richieste dei manifestanti di piazza Tahrir all’inizio della rivoluzione del 2011. Oggi, però, sembra essere cambiato il trend: la stabilità è la principale richiesta degli Egiziani, anche a costo di non raggiungere nessun cambiamento dopo appena tre anni di incertezza e di duro scontro sociale.
Nonostante, dunque, l’esito scontato, le priorità del neo-Presidente – che si insedierà il 7 giugno – dovranno essere poche ma chiare: lavoro, economia e sicurezza sono i tre perni su cui dovrà incentrarsi il mandato di al-Sisi. Quel che più preoccupa è, come già accennato, il clima di crescente tensione sociale e di polarizzazione politica e che rischia di favorire un’escalation di violenze anche di sfondo terroristico. L’instabilità politico-istituzionale e gli attentati terroristici del 24 dicembre al Cairo, Giza e Mansoura, che hanno causato la messa al bando della Fratellanza Musulmana come organizzazione terroristica, e quelli del 14 gennaio in diversi quartieri della capitale egiziana, stanno favorendo una penetrazione dei fenomeni jihadisti e di salafismo armato nell’entroterra del Paese finora ritenuti confinati solo al Sinai. Una situazione che potrebbe ulteriormente degenerare se frange sempre più radicali della Fratellanza decidessero di abbracciare – o quanto meno favorire – il ritorno del terrorismo islamista come già fu nell’Egitto degli anni Ottanta e Novanta. Ad alimentare dubbi e speculazioni di stampa – in alcuni casi mai comprovati come quelle riguardanti il finanziamento delle attività terroristiche della sigla qaedista di Ansar Beyt al-Maqdis da parte dell’ex numero due dell’Ikhwan ora in carcere, l’uomo d’affari Khayrat al-Shater – vi sarebbe il pericolo di un passaggio di scontenti della Fratellanza Musulmana verso la Cirenaica che potrebbero decidere di sostenere la causa jihadista in Libia e in Egitto. Un serio problema di sicurezza che, dopo il Sinai, aprirebbe un nuovo fronte di instabilità anche ad Ovest, lunga la porosa frontiera libica.
Altra sfida che spetterà il nuovo leader egiziano sarà il ristagno economico e la quasi totale paralisi che vive il Paese. Più di due terzi dei senza lavoro sono giovani; circa un quarto della popolazione vive sotto la soglia della povertà, con meno di due dollari al giorno. L’Egitto continua ad essere oggi fortemente esposto al default finanziario e al rischio di una nuova ondata di proteste sociali. In assenza di incisive e radicali riforme economiche e senza l’aiuto politico e finanziario non solo delle plutocrazie arabe del Golfo è a repentaglio la stessa ricerca di stabilità dell’Egitto post-Mursi. Il neo-eletto ha promesso in campagna elettorale vecchie ricette fatte di intervento statale nell’economia, grandi opere e piccole aperture al sistema liberista internazionale. Il tutto senza neanche nominare uno dei grandi mali che drogano l’economia egiziana, ossia la pervasiva presenza dei militari (secondo stime ufficiose della Corte dei Conti egiziana dovrebbe contare un terzo del PIL nazionale). Troppo poco per poter incentivare e favorire un radicale sistema di riforme capaci di placare la rabbia giovanile di appena tre anni fa e in grado di garantire un concreto cambiamento rispetto al modello di business in atto nei trent’anni di Mubarak.
Per al-Sisi, dunque, le sfide del post-voto sono innumerevoli e ardue se il clima di scontro sarà ancor più esacerbato, data anche la complessità delle situazioni e degli interessi in gioco. Il tempo dirà se la ricetta del nuovo Nasser è una (vecchia) ricetta vincente.
* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
Photo credits: Getty Images
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