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Einaudi contro Keynes

Creato il 14 novembre 2012 da Faustodesiderio

Nel 1955, a 81 anni, Luigi Einaudi terminò i sette anni in cui ricoprì la carica di presidente della Repubblica. Era in pieno svolgimento il «miracolo economico italiano» di cui lui era stato, nel biennio 1946-1948, l’iniziatore come governatore della Banca d’Italia e ministro del Tesoro e delle Finanze e poi del Bilancio. Finita l’esperienza al Quirinale gli fu chiesto quale titolo di prestigio volesse, per aver servito così bene il Paese in quel periodo critico. La richiesta aveva un senso dal momento che Einaudi era già senatore a vita di diritto, avendo avuto il laticlavio dal re d’Italia nel 1919. Pertanto, non poteva usufruire di questo alto riconoscimento che la nuova Costituzione assegnava agli ex presidenti della Repubblica. Cosa chiese allora Einaudi? Una cosa semplicissima: di rientrare nella cattedra di Scienza delle finanze dell’Università di Torino, nella Facoltà di legge e Scienze politiche, in soprannumero, senza retribuzione avendo già quella di senatore a vita. Insomma, Luigi Einaudi espresse il desiderio di ritornare a fare quanto aveva fatto per tutta la vita: lo studioso.
Lasciato il Qurinale, Einaudi prese a scrivere e curare la sua opera. Scrisse le famose Prediche inutili, curò un’edizione sistematica delle sue Opere, scrivendo la prefazione ai Saggi sul risparmio e l’imposta, ai Miti e paradossi della giustizia tributaria, a La terra e l’imposta e i primi 5 volumi della serie delle Cronache economiche e politiche di un trentennio, che raccoglieva una selezione degli articoli da lui scritti prima su La Stampa, poi sul Corriere della Sera, fra il 1893 e il 1925. L’edizione delle Opere di Luigi Einaudi era un lavoro complesso e colossale che lo stesso autore non riuscì a condurre in porto. Dopo la sua morte, sono stati portati a termine solo i tre volumi ancora mancanti delle Cronache economiche, mentre non sono stati editi, in quella collana, i saggi sulla moneta, sul credito, sulla tassazione, sulla storia del pensiero economico, quelli sociologici e politici. Ora presso la casa editrice Rubbettino, in occasione dei quarant’anni dalla nascita della “creatura” di Rosario Rubbettino, hanno visto la luce alcuni scritti inediti del grande economista italiano. Si tratta di una raccolta di saggi che Francesco Forte, che ne firma la bella Prefazione dalla quale questo articolo è tratto, ha intitolato Il mio piano non è quello di Keynes, dal titolo del saggio einaudiano del 1933.

Per il periodo che stiamo vivendo, tra sacrifici e tasse, speranze di ripresa economica, debiti di Stato e investimenti le pagine di Einaudi sono preziose e illuminanti. Sembra che la lezione di Keynes, che si fonda sulla proposta del massiccio intervento dello Stato nell’economia allo scopo di creare occupazione e rimettere in moto l’economia, sia tornata di moda, eppure non va dimenticato che spesso la cura può essere peggiore della malattia e, anzi, nel nostro caso la malattia nasce proprio da un intervento esorbitante dello Stato nel mercato economico. Gli scritti di Luigi Einaudi, proposti da Rubbettino e curati da Francesco Forte che è il successore nella cattedra di Einaudi a Torino – fu scelto dallo stesso Einaudi e nella Prefazione Forte ricorda quel periodo e chiarisce in che senso è stato allievo di Einaudi – sono utilissimi a capire che se una direzione della vita economica è possibile e persino auspicabile, lo è solo in quanto riesca a tener conto della libertà individuale come motore primo dello scambio e del mercato e della produzione. Al di fuori di questo caposaldo, che Einaudi tenne sempre fermo – e che, aggiungo, il pensiero liberale italiano ha sempre tenuto fermo, anche nella famosa disputa su liberismo e liberalismo tra Einaudi e Croce – ogni pianificazione si risolve in costrizione, qualsiasi intervento in un impedimento e ogni forma di politica si trasforma in un’imposizione legittimata dall’alto in nome dello Stato. La grande e irrinunciabile lezione di Einaudi consiste soprattutto in questo: gestire la crisi, ieri come oggi, significa gestire la stessa libertà dell’uomo affinché, responsabilizzata, sia in grado di compiere scelte coraggiose e sempre perfettibili perché fondate sulla costante osservazione della realtà e non sull’arbitrio di una ideologia o di un’astratta dottrina.
Einaudi fu un fine teorico, un pensatore robusto e in lui il pensiero andò di pari passo con lo scrittore chiaro e brillante. Leggere Einaudi è sempre istruttivo e piacevole o, ancor meglio, gustoso e saporito: l’economia per Einaudi non è una scienza astratta – ammesso che sia una scienza, sulla qual cosa ho non pochi dubbi, e, ancora, ammesso che da qualche parte esista qualcosa in generale che sia una “scienza” – ma un sapere concreto, legato a scelte indirizzate da principi che hanno come riferimento la libertà umana nel mercato. Nei suoi scritti il grande economista fa continui riferimenti alla storia, alla vita quotidiana, alla biografia di uomini celebri, a casi specifici e particolari significativi. Il saggio che dà il titolo al libro inizia proprio con il chiarire che lo scritto di Keynes è detto “saggio” ma sarebbe meglio definirlo “libello” ma non lo si fa perché la parola “libello”, che un tempo indicava gli scritti brevi e significativi, è stata mal usata e oggi genererebbe equivoci. Einaudi riconduce il saggio o libello di Keynes al suo cuore e sostiene che per Keynes la crisi è dovuta a un difettoso funzionamento dei congegni mentali psicologici, a una sorta di «malattia dello spirito» che «somigli all’imbarazzo di due abili conducenti di autocarro in perfetto stato, i quali incontrandosi in ampio spazio aperto, non sanno proseguire perché, ignorando le leggi della strada, cozzano per non sapere chi debba andare a destra e chi a sinistra».

Per Keynes il paradosso economico «sta nella mancanza di un contatto fra fattori disponibili-uomini disoccupati, macchine inoperose, terre incolte, materie prime inutilizzate e desiderio o bisogno dei beni che i fattori disoccupati produrrebbero se fossero occupati. Il contatto non si opera perché l’imprenditore non spera profitti. I fattori produttivi occupati devono assoggettarsi a taglie enormi per mantenere in vita quelli disoccupati. Occorre disincantare la macchina. Vuolsi dar lavoro a un milione di disoccupati? Basta a 10 mila lire a testa un fondo di 10 miliardi di lire. Se gli imprenditori privati non osano, osi lo Stato. Sui 10 miliardi spesi, lo Stato è sicuro di recuperarne, fra quel che risparmia in minori sussidi ai disoccupati, e quel che lucra, per cresciute imposte, sul cresciuto reddito dei contribuenti, almeno cinque. Supponiamo che lo Stato ottenga a mutuo da qualcuno che lo possiede (o lo crea) il fondo di 10 miliardi di lire; supponiamo che il mutuo sia concesso a lunga scadenza e a tenue saggio di interesse. Ecco utilizzati i fattori produttivi già esistenti e disponibili. Ecco creato il miracolo del rimettere in moto la macchina economica senza aumentare i prezzi dei fattori produttivi e dei prodotti».
Fin qui il piano di Keynes. A questo punto Einaudi scrive con ironia: «In Paesi antiquati e da economisti antiquati come lo scrivente la risposta alla domanda: dove trovare i 10 miliardi? Sarebbe: presso i risparmiatori. Senza la lepre non si fanno i pasticci di lepre». Ma, aggiunge, «pare invece che nei Paesi avanzati i pasticci di lepre si facciano ora con i conigli». Infatti, Keynes propone che una banca internazionale di emissione emetta biglietti di dollari-oro che verrebbero dati a mutuo ai governi e alla banche centrali che ne facessero richiesta, in modo da rialzare il livello dei prezzi di un importo convenuto. Einaudi rileva la contraddizione fra la tesi di Keynes per cui se esistono fattori produttivi disoccupati armonicamente componibili è possibile espandere il credito con la emissione di nuovo debito pubblico facendo leva sul risparmio inoperoso senza aumentare i prezzi e la sua ulteriore tesi per cui occorre, invece, espandere la moneta, tramite un organismo internazionale che la crea per i vari Stati, allo scopo di generare i profitti, mediante il rialzo dei prezzi. Keynes sembra incerto tra queste due soluzioni, quasi come se fossero due “piani” piuttosto che uno o come se il suo piano fosse il risultato di questi due “piani” tra loro incrociati.

Tuttavia, stiamo all’obiettivo di fondo: la disoccupazione si combatte con investimenti pubblici attraverso emissione di debito pubblico. Einaudi osserva che il rimedio, pacifico secondo la teoria classica, è conveniente nei punti di avvallamento del ciclo economico – dunque non sempre – ma è soggetta a limiti. Il rimedio non può avere applicazioni illimitate altrimenti diventa peggiore del male. La crisi, infatti, non è dovuta a una “malattia dello spirito”, ma a distorsioni nel processo economico con finanziamenti errati e investimenti sbagliati: «Si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevole, di imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quanti esempi di meritata punizione. Le imprese dirette da gente competente e prudente, passano attraverso momenti duri, ma resistono. Gran fracasso di rovine invece attorno a chi fece in grande a furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi per sostenere l’edificio di carta, fabbricò altra carta e vendette carta a mezzo mondo». Einaudi si riferisce ai suoi tempi, ma la sua analisi è utile a noi per riferirci al nostro tempo. Il suo pensiero, proprio perché è legato alla realtà concreta, alla libertà umana e non è disgiunto dalla forza morale, è tuttora validissimo per capire non solo l’economia ma la vita umana più ampia e significativa.

Commenta, giustamente, Francesco Forte: «Con la contrazione della domanda, dopo il boom artificioso, le iniziative sbagliate vengono eliminate». Ecco perché non serve l’euforia della carta moneta a risolvere i problemi. Ed Einaudi può dire: «La crisi e la mancanza di profitti nascono dallo squilibrio dei prezzi, dal fatto che taluni prezzi non ribassano o non furono lasciati ribassare, e poiché i prezzi sono reddito per gli uni e costo per gli altri, molti perdono e perdono soprattutto gli imprenditori. Un rialzo dei prezzi che fosse dovuto a lavori pubblici compiuti per mezzo di inflazione creditizia lascerebbe la sproporzione fra prezzo e prezzo, ossia fra costi e ricavi, forse la accrescerebbe». Così nell’arraffa arraffa dell’inflazione “vincono i più svelti” e non i migliori. Mentre sulla base delle passate esperienze, come quella dell’inflazione dopo la prima guerra mondiale, Einaudi nota: «Cadrebbero gli innocenti, gli industriali, gli agricoltori, i commercianti probi e sensati i quali ha sin qui resistito all’urto della crisi».
Dunque, basta attendere che la bufera passi e faccia la sua selezione naturale eliminando gli inadatti? Non è di certo questo il pensiero di Einaudi che, invece, dice: «Il grande scoglio della liquidazione sono i prezzi fissi per legge (imposte), o per contratti a lunga scadenza (interessi di debiti pubblici e privati), o per convenzioni rigide fra gruppi sociali (stipendi e salari)». Un tema, questo, sul quale l’economista italiano si era soffermato un anno prima nel saggio Bardature della crisi. E a leggerlo si rimane stupiti a vedere come molte delle “bardature” o vincoli che cita Einaudi e che immobilizzavano il mercato, impedivano la crescita e garantivano la disoccupazione si ritrovano, con qualche variante, anche oggi: tasse alte, interessi sul debito, spesa pubblica esorbitante, salari rigidi, lavoro sommerso, monopoli, salvataggi per ragioni d’ordine pubblico. Bardature e vincoli che rendono inutile anche la svalutazione della moneta con la fuoriuscita dall’euro (nel caso a qualcuno venisse in mente la balzana idea). «Se gli uomini si ricordassero sempre degli errori commessi in passato – scrive Einaudi – e delle loro conseguenze, le crisi scomparirebbero o si attenuerebbero assai. Nessuna speranza più mal riposta di questa: che gli uomini si ricordino del fortunale in tempo di bonaccia. Fanno voto, come i marinai, di non ricaderci quando temono di andare a fondo; ma son propositi da marinaio».

tratto da Liberalquotidiano.it del 14 novembre 2012



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