Delfina falciava sterpi con il coltello a calore, i Costrutti si immobilizzavano ad ogni friggere di foglie: torcevano l’esile collo, li spiavano con gli occhi morti. Leccavano gli alberi, s’incurvavano alle radici, scavavano con gli artigli il terriccio ma flettevano gli arti meccanici pronti a un balzo da cavallette.
Che il robot calpestasse o estirpasse i cespugli, Eleanor osservò, li lasciava indifferenti, inermi; se invece nel farsi largo urtavano le cortecce, e schiacciavano i fittoni di cheratina che affioravano dalla terra sotto la coltre di squame livide, all’unisono un clac di ferro si sollevava nell’oasi, e gli orridi giardinieri interrompevano le loro cure:
«… ovvero saremmo pulci su una pelliccia?…», grugnì l’esploratrice.
«Pidocchi», Eleanor la corresse, «ho ragione di credere che fu un tempo un essere umano, rinnegò l’universo, praticò la negromanzia. E c’è il caso che l’infezione leda l’oasi e poco oltre: la macchia si estende in una conca.»
«E con ciò?»
«Una conca è un cratere»; le tornarono alla mente le incredibili olo-sequenze, gli hangar-mausoleo, il Dustrider perduto.
L’altra spazzò le fronde con il coltello fra i gemiti attoniti dei cadaveri-giardinieri:
«Fatico già tanto a credervi ed assecondarvi, non sperate che vi capisca.»
Una voragine nel terreno bianchiccio scendeva a una cavità di roccia morbida rosa, striata di scarlatto e melanzana da un intreccio di vene lucide di minerale e radici.
Eleanor, Delfina e Farinelli si ingobbirono sotto la volta opprimente: la grotta a pochi metri dall’ingresso si stringeva in un budello maleodorante, la roccia stillava liquidi iridescenti.
Il cunicolo scivolava in una fetida oscurità. Il robot puntò gli abbaglianti: il tunnel si avvitava nelle tenebre, e la luce non schiarì di là d’un gomito viscido e nero di radichette.
Delfina lasciò cadere un fumogeno, e il candelotto rotolò per tutta l’umida strozzatura accendendo i minerali di bagliori multicolore. Le radici si rattrappirono al fuoco chimico del petardo, che crepitò per qualche istante in una liquida profondità.
Eleanor guardò perplessa nel buco buio, udì il fischio della miccia che si estingueva e il bollire del fango e di chissà quali icori; le fiamme, come i fari non scalfivano, le tenebre.
L’esploratrice le spiegò con il cronometro:
«Sappiamo che c’è fondo, benché liquido o molliccio; direi, dalla velocità di caduta venti metri sotto di noi. Il cunicolo procede in verticale, in pratica è un pozzo: umido com’è il terreno, sarà una scivolata. Non dovremmo trovare gas: il fumogeno li avrebbe fatti incendiare.»
«Scendo, signora», si offrì Farinelli.
Eleanor trovò la corda nel survizaino, lei e Delfina la allacciarono alle tute:
«Tu piuttosto ci farai da capocorda», si calarono nel budello.
I cristalli e le radici che urtavano nella discesa si disfacevano in polvere e pietrisco rossastro; si staccavano dalla parete come croste da una ferita, La pietra attorno a loro si crepava e croccolava, squamava e spargeva polvere e un odore di stantio. Il cunicolo scendendo scuriva, e la roccia diveniva color ruggine e più fragile.
Delfina puntava i piedi nel minerale:
«A che cosa assomiglia?»
«Preferisco non dirvelo.»
«Sopporterò.»
«Cartapecora. È roccia e pelle morta e mummificata.»
Il tunnel si attorcigliò in verticale. Eleanor strattonò a Farinelli che desse loro corda e s’inchiodasse all’imboccatura, l’automa fissò le suole nel rosa tenue: una crepa si aprì sotto i suoi piedi e lacerò tutto il cunicolo fin le invisibili profondità, l’eco di uno strappo risuonò nella caverna.
Le pareti si sbriciolarono tutt’attorno, la roccia cadde in polvere sul fondo; Eleanor, Delfina e Farinelli si ritrovarono trascinati dallo smottamento prigionieri dei viticci purpurei: pencolavano dai piliferi ripugnanti capovolti nel baratro.
Il robot tese le braccia ad entrambe, si afferrarono ai polsi:
«Un colpo di reni! Conterò fino a tre: alzatevi e riaggrappatevi alle radici!»
Lei sentì sciogliersi la stretta dei filamenti, vide i lacci vegetali spezzarsi per il loro peso: i peduncoli si sfilacciarono, li abbandonarono all’oscurità.
Eleanor batté il sedere su un fondo morbido, spugnoso; schiarì i dintorni con il faro del tricasco e trovò l’esploratrice e il valletto con sé: immersi in un siero profondo qualche decimetro che smosso scopriva un fondale biancastro. Si alzarono sulle ginocchia: il suolo si aggrinzì attorno a loro, li inghiottì in vesciche tumide poco sotto la superficie. Sul fondo di quelle sacche pulsava un ugello, si udiva uno scroscio:
«… e questa naturalmente non è una buca», Delfina imprecò, «e qui sotto non scorre un corso d’acqua, ma…»
L’ugello li tuffò in un lago denso, bruno, dal sentore metallico e dolciastro. Calarono di qualche metro e non toccarono fondo. Si cercarono con i fari nel flutto nero, nuotarono abbracciati verso l’alto ed emersero ricoperti di sangue.
Lei ostentò indifferenza, esplorò con la torcia tutt’attorno la pozza:
«Ci sarà pure una riva o un appiglio?»
La luce mostrò sopra di loro la volta disgustosa che li aveva vomitati: un soffitto di tube rosee pencolanti, slabbrate, che stillavano nel lago rosso grumi grassi e liquami.
Eleanor udì uno sciabordio alle loro spalle, Farinelli si voltò, schiarì la superficie: creature candide, tentacolate e rotonde nuotavano contro di loro fra le onde scarlatte. Il corpo ovoidale si assottigliava di fronte cucito alla testa argentea luccicante di una lampreda, runcigli di acciaio armavano gli pseudopodi.
Delfina illuminò coralli bianchi contro i quali si frangevano i flutti scuri: il lago precipitava sui sedimenti, il flusso del sangue accelerava negli interstizi, ruggiva al di sotto; l’esploratrice nuotò veloce e si arrampicò. Eleanor la raggiunse in tre bracciate, Farinelli si aggrappò alla barriera, spezzò le escrescenze e ricadde nel pozzo rosso.
Le creature gli sciamarono addosso, lo avvinghiarono con i tentacoli uncinati, gli affondarono le ventose nella corazza, si staccarono impotenti e stordite. Si afflosciarono sui coralli.
Eleanor tese il braccio all’automa, lo issò sullo scoglio.
Delfina mozzò le teste petromizonti dov’erano suturate coi corpi pallidi lanuginosi: gli esseri squarciati scomparvero in cenere; un altro sciame affiorò dall’abisso, strisciò contro di loro con gli uncini protesi:
«Non è un attacco, è una risacca!»
«È normale, in un certo senso», Eleanor balbettò, «siamo intrusi in un organismo: credo si tratti di leucociti costrutti…»
«Sono bestie, pesci!», ruggì l’esploratrice, «schifezze di un altro mondo, chiamatele come volete! Ma rifiuto di ammettere che siano globuli bianchi!»
Farinelli si drizzò sullo scoglio, e accese gli abbaglianti sulla vasca repellente: il sangue fluiva attorno a loro per un raggio di trenta metri in una conca di roccia, e schiumava in una cascata a sinistra in una gola di pietra fossile e corallo. Le creature tentacolate, inesauste, nuotavano in circolo e si tuffavano in profondità, riaffioravano con un sibilo; la luce dell’automa gli scintillava negli occhi vacui.
Eleanor lanciò corda e rampino: l’ancoretta si incastrò sull’altro ciglio della cascata, avvolse la sua cima ad una sporgenza del loro scoglio. Farinelli strappò, e il calcare stridette, bianchi sassolini franarono nel baratro. Lei saltò nel vuoto lungo il cavo:
«Non abbiamo altra scelta.»
Il robot e Delfina la seguirono nel buio: affondarono fino all’inguine, dieci metri più in basso, in una stretta d’ossa secche e di ghiaia.
Avanzarono incespicando su quel tappeto che scricchiolava.
L’onda cremisi che pioveva dall’alto tracimava in una coppa di scapole e di ilei, resti giganteschi di ignoti leviatani. Il flutto si spezzava sui teschi inconoscibili di fossili che non erano di cetaceo, né di pachiderma o d’altre specie terrestri; colava e scompariva nel suolo ch’era una sabbia di calcare e di chitina, un impasto di calcio, di gesso e di sale.
I carapace di insetti giganteschi di un’era paleozoica extraterrestre erano stesi in quell’ossario con cadaveri recenti, rottami arrugginiti riempivano le fosse.
Pergamene di mostruosi progetti di incroci ed automi fra scutigere e bambini, parti di cadavere e camminatore meccanico, molluschi e ferraglia, erano appesi con puntine da disegno a tibie ciclopiche drizzate come tronchi.
Eleanor le accartocciò sotto il naso a Delfina:
«Vi ricordano nulla?»
«Una… fabbrica», l’esploratrice inghiottì, «ha bisogno di operai.»
Lei cercò ancora fra gli orridi disegni: trovò schizzi di indigeni rabberciati da morti, dettagli di utensili; annotati in antico europeo e siglati con quella S sulle corazze dei Giardinieri:
«Non ne vedo, qui sotto.»
«In superficie ce n’è fin troppi», Delfina ringhiò, «Siamo caduti di nuovo in trappola, ne ho davvero abbastanza!»
Farinelli affondava i suoi scandagli nell’ossario, calcolava l’antichità, l’estensione di quello strato ma i dati gli brillavano contradditori negli occhi; l’esploratrice spaccava a calci i carcami:
«Dovrei fare lo stesso a voi!», strillava.
Lei crollò seduta su un teschio, sciabolò con la torcia quella macabra officina: il pozzo di carne e pietra che scendevano da molte ore lì si stringeva inattaccabile e ripido: la polvere non defluiva, non salivano spifferi. Non c’erano uscite. Né vedeva come scendere, e almeno toccare il fondo, conoscere la fonte viva di quell’orrore impossibile.
Si sforzò di non piangere:
«Ho fallito come studiosa e come campione dell’umanità», pensò, «ho trascinato alla rovina un robot e un’altra persona a morire con me.»
Il raggio del tricasco le tornò in un riverbero: in una grotta a qualche metro di fronte, che sembrava scavata in un immenso molare, scintillarono le ruote e la fiancata di un cingolato. Sui pannelli di ceramite era dipinto un 72, la predella di un portellone affiorava dal mucchio d’ossa.
Eleanor gridò:
«C’è una pala nel survizaino?!»
Faticarono con gli attrezzi che trovarono: l’ancora e la baionetta servirono allo scopo, Farinelli spazzò la polvere dallo scavo. L’ora dopo l’ingresso era sgombro, e una parte di cingolo, scoperta dai detriti, lasciava indovinare l’imponente relitto:
«Un Dustrider rovesciato e sepolto!», Delfina sbigottì, «Com’è caduto quaggiù?»
«È la causa di tutto.»
Eleanor soffiò la polvere dai cardini del portellone, si sforzò sulla maniglia:
«Aiutatemi», supplicò.
L’esploratrice tirò con lei, si ribaltarono a terra. L’automa, con una nota stupita di sol diesis, agguantò il corrimano e schiantò la paratia.
Un alito di sepolcro soffiò dall’interno.
Eleanor, Delfina e Farinelli balzarono dalla predella a bordo del Dustrider: le alogene, i led i tunes del squillarono dopo secoli in un gelido benvenuto.
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