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Eleanor Cole – Episodio 4

Creato il 30 aprile 2012 da Fant @fantasyitaliano

La rampa di alabastro saliva alla galleria, Chaudhary e Farinelli spalancavano i due battenti. Eleanor e Matsumoto entravano nel corridoio: la morte di Marat di David, la Nona Ora di Maurizio Cattelan nuotavano sulle vetriate in omaggio al defunto. L’icore scarlatto dell’antico statista, il piviale bianco-cellophane del papa, l’olio, le resine, cartiglio e meteorite, sfocavano sugli ori, i cristalli e la pietra rosa e affondavano in un lamento nelle viscere dell’astronave. Le macchine intonavano un ufficio per i morti sui ponti del vascello, nelle aule dei motori; le alogene si smorzavano, nelle camere stagne, nelle Leçon de Ténèbres di Françoise Couperin.
L’uscio maestoso di una sala di rappresentanza si apriva su un concistoro di gentiluomini esterrefatti.
Un marchese di IG Farben dal caduceo di mercurio. Un visconte di Philip Morris a una mensa di cacciagione: gli arti arrostiti di chelopodi marziani grattugiati di tartufo, di tabacco e d’olivo. Cavalieri decrepiti di Total e di Shell svanivano nei giachi cromo e negli ottani delle parrucche. Un visconte di McDonald’s con il panciotto di fiamma, le briciole di platino appuntate alla cravatta; un granduca di Nestlé con il soprabito di bimbo negro. Fra le gambe leonine e d’oro di un banchetto di condoglianze, in battaglie deliziose su un tappeto di petali, geno-mici, cagnolini e conigli si leticavano gli ossicini, le lische e le foglie. Uno stormo di automati in figura di rondine garriva e dardeggiava, sotto l’abside di coffa, in un cielo proiettato d’indaco sull’inquinato di Ammit.
Eleanor e Matsumoto salutarono con un inchino, il roboto e l’ufficiale scattarono sull’attenti:
«Signori aristocratici», il direttore ustolava, e sventagliava il fazzoletto e i pizzi al passo di una gavotta consumata e ruffiana, «prendo possesso della scialuppa presidenziale e vi conduco senza altri indugi in salvo. Con il mio sbarco sul pianeta a soccorrervi», e accennava, fuori l’oblò, alla capsula quasi sepolta: che un’isteria di rapitori incolori azzannavano a cacciavite, brugole e martellate, «ora sussistono le condizioni per il decollo: trasferiremo il presidente dov’è opportuno e lorsignori alle sedi che preferiscono. Se crederà, com’è previsto dalla tabella di marcia, la qui presente signorina Eleanor Cole, agente della Compagnia delle Galassie Orientali», e un po’ la supplicava, con la coda dell’occhio, di assecondarlo nella sbruffonata, la provocava con cattiveria, «potrà restare per studiare gli Ammit e gli intoppi a procedere alla campagna per questo mondo. Verifichino sui loro i.carnet l’aderenza al programma.»
«Davvero?», scoreggiava contento il granduca del cioccolato sul faldistoro di marocchino: gli iniettori di aromi, coloranti e conservanti che gli pompavano nelle viscere e sottopelle aspersero le volte di un aroma di Lindt, gli contrassero la fisionomia in un omino di pan di zenzero. Nelle cornici fra le navate, sotto il bulbo di cupola, tornava il pianeta d’ocra magnifico nell’eternità; le dune crespe di un gravido vento caldo. L’intera astronave si asciugava le lacrime.
«Se sapessero», Eleanor si tormentava, «per cosa palpitano tanti cuori di metallo e di carne!», ma si stringeva il suo segreto fra i denti: e ripeteva che il Profitto, l’Umanità, specie così lontano dal focolare della natura, le prime stelle che gli occhi umani sperarono, valevano quelle menzogne che si ordivano per proteggerle.
Shell e Total approvavano eccitati, nitrivano diesel dalle narici di zinco. Le trine di lamiera delle giubbe grigie e blu frinivano e tintinnavano ai loro ai loro applausi femminei.
«Grazie»; ma Eleanor vedeva cento metri là fuori il modulo di atterraggio che s’inclinava su un treppiede monco, il portello slabbrato, scoperchiato a sprangate, gli interstizi fra le maioliche violati dal cacciavite. Gli indigeni drizzavano quelle fiche di cenere, goffe ed eloquenti nei guantoni di amianto, ai nobili ai ponti alti e ai soldati affacciati a stiva, protestavano negli scafandri un orgoglio di ladri. Sbullonavano a man bassa, svitavano ogni pezzo, lo scoprirsi impuniti li rendeva sfrontati: caracollavano via di corsa, in quella polvere abbacinante, nel silenzio di là dal vetro con immondizia serrata al petto. Fosse pure una scheggia, un intreccio di cavi… ma, come dimostravano le Iper-cellule intatte, che affondavano nelle dune, non tenevano in nessun conto le merci più accattivanti.
Questo la arrovellava.
Matsumoto le ammiccò da genuflesso, una smorfia di nascosto sotto la zazzera ruscellante: «provi ora, a cavarsela», gongolava porcino, «non può farcela sola, vuoti il sacco: perché siamo sbarcati, qual è il motivo vero? M’intorterò questi signori daccapo e voi decollerete come non detto: con noi. Divideremo ogni segreto e merito. Mi avete visto in azione, non mi merito un fondaco»; lei era abituata a quei giochini da maschi, gli oppose un argomento poco più astruso di un’eiaculatio:
«Potrei decidere che meritate una pallottola in fronte e nessuno di questi nobili mi avrebbe in giurisdizione. Vi è proprio così difficile comprendere questo fatto? Partite, se credete, e se vorrò mi sbarcherete di nuovo, sempre e comunque alle mie condizioni.»
Il direttore schioccò le dita a Deepika ché salisse con lui alla cabina di pilotaggio, «accediamo i motori, guardiamarina Chaudhary»; sulla rampa di acciaio, dal presbiterio fino a lassù, si affacciava dalle vetriate sul brulicare degli Ammit, ostentava con gli ospiti disgusto per quella plebe: «avvertiteli», ghignava, «qualcuno ne lesseremo». Deepika, nel passarle vicino, diede a Eleanor un colpetto con il gomito:
«C’è l’ha piccolo, non è vero?», le sussurrò.
Lei restava sola in quella tempera grottesca, quell’aborto di taccuino di William Hogart e Otto Dix.
Nestlé ruttava fra i padiglioni barocchi un alito di Amedei ai canditi di arancia; Philip Morris succhiava gli otto arti al brodetto degli abomini chelati fra cavolfiore e tabacco. E masticava la polpa azzurra e fibrosa in quelle pinze chitinose e sottili, sputacchiava di granchi alieni, sigarette e di vino bianco la giubba color smeraldo e i ricci rossi di Eleanor. La costringeva a una doccia fetida di condoglianze e proteste.
Farben affidava il caduceo scintillante a un automa lacchè dall’esoscheletro di lacca bianca, le veniva più vicino, la fissava negli occhi, scopriva, incalzava certi pensieri fin troppo facili con questioni imbarazzanti e serrate:
«Perché non ci rapinano per esempio i container, né saccheggiano le scorte alimentari o idriche che qui sono un tesoro inestimabile? Si accoppiano fra consanguinei, sono minati di malattie: Miss Pianeta dev’essere storpia con le verruche, decrepita a diciotto anni non ancora compiuti: eppure non molestano i pierre, non hanno avvicinato prostitute o gigolò, non gli interessa il femminino erotico cui soccombe l’Universo conosciuto.
Si accaparrano quello che vogliono con i mazzuoli e con le mazze da baseball, eppure non aggrediscono i nostri staff», il marchese di IG Farben, da aristocratico farmaceutico, irradiava un disagio diaccio, un sentore di lazzaretto, l’ala nera del suo pastrano di tenebre abbracciava fuori gli oblò i coloni che se ne andavano. Le famiglie trascinavano nella polvere i rottami dell’uovo accartocciati di martellate, ci si fermavano ginocchioni, irroravano gli scafandri di un pianto di devozione; «spiegatemi questo. E ammettete finalmente signorina Cole che colui che riposa in un frigorifero nell’altra stanza, nella quiete equanime della morte, non era il presidente, bensì un omuncolo.»
Shell e Total si avvilirono con un guaiolo di clacson, McDonald’s esplose nel panciotto. Il visconte rovesciava gli pseudopodi sui petali con le lische extraterrestri e i molluschi dall’Oltrespazio, al bisticcio dei suoi cuccioli alterati nel dna. La seggiola del granduca graffiò la roccia rosa tale era il peto sconcertato e sonoro che spinse Nestlé fra le consolle del presbitero.
«Ingannate la soldataglia», sbadigliava IG Farben, «tenete all’oscuro, se volete, un impiegato di stazione spaziale: ma, quali che siano le vostre libertà, signorina agente speciale di Compagnia, non vorrete coglionare un mio pari di logo.»
Eleanor si trovava a disperata ridotta di sguardi sgomenti, increduli e iracondi: di fronte le franavano le mandibole dei nobili, le gole le eruttavano uno sconcerto fetente.
Chaudhary e Matsumoto, dall’alto delle cloche, impietrivano nei sedili ma non stornavano il capo. I monitor, i radar, i display verde-fatuo restituivano da lassù le loro facce allibite: un riflesso severo, ostile, tradito.
Lei sperò tanto che i fono-tubi di bordo non avessero gocciolato quel veleno gratuito: non ai quattro fanti che aspettavano nella stiva.
Farinelli le accarezzava quasi nascosto le dita; gliele stringeva fra le sue, gelate, di resine e di silicio e di leghe e di fil di ferro. Rilasciava una scossa elettrica a confortarla del suo sostegno. Lei lo ricambiava di un sorriso di gratitudine, e il viso meraviglioso le scintillava sul roboto. Poi rispose al marchese di IG Farben con una smorfia di combattimento di sprezzante risolutezza:
«Come avete intuito?»
«L’acume appannato, lo sguardo offuscato, gli argomenti banali, le frasi di circostanza. L’usare luoghi comuni. Tipico di un manichino coltivato in provetta, non di un uomo pubblico che è il nostro volto nelle galassie.»
Eleanor giocò le proprie carte:
«Non offendete, marchese di IG Farben, la vostra intelligenza politica. Si svolgono molte cerimonie nell’arco di anni-luce, tutte egualmente importanti: impossibile partecipare per un solo presidente. Disertarne una in favore di un’altra creerebbe un precedente, o peggio un incidente diplomatico. I soci, i consumatori, i gruppi che rappresenta la Compagnia non s’interessano dell’individuo-presidente in sé, del compianto che fosse Lodovico Landolfi: li interessa ciò che egli significa. Infine l’Universo è così grande e contraddittorio che anche se più Sistemi hanno assistito in diretta all’incidente fatale, la notizia può essere fin d’ora sbugiardata, e il pubblico terrà a mente solo l’ultimo slogan. Se però queste sciocchissime circostanze vi attossicano di paure, signori aristocratici, sappiate che c’è di peggio», si abbuiava feroce, «perciò sono qui.»
Ora gli animaletti modificati si acquattavano dietro le gambe delle poltrone, trascinavano i loro bottini di avanzi, li rosicchiavano nell’ombra vergognosa. Le rondini meccaniche si stringevano sugli archivolti.
Philip Morris, Mc Donald’s e Nestlè si aggrappavano alla tovaglia lucida d’unto e di seta quasi sperassero che li salvasse da uno spavento; le parrucche di Shell e Total si afflosciarono nere, i cavalieri espettorarono anidride carbonica.
«In quanto aristocratico di logo farmaceutico», Eleanor continuava, con gli occhi addosso a Farben, «suppongo abbiate un’istruzione di base di medicina, chimica e simili»; e il roboto valletto ostentava stizzito lo scettro con le ali e i serpenti intrecciati, «vorreste dunque esaminare con me il cadavere dell’omuncolo in ghiacciaia?»
Farinelli li precedeva a una porta fumante cosparsa di brina all’altro capo del ponte: una coccarda di velluto blu notte, una sobria corona, pencolavano da un magnete sull’uscio imbullonato.
«Aspettate a decollare», sibilò Farben a Matsumoto e Chaudhary che già scaldavano i razzi della navetta. Deepika imprecò contro Shiva, picchiò sulla consolle dei comandi; il direttore la avvicinava, le sussurrava all’orecchio, guardava sbieco a Eleanor che entrava nell’obitorio:
«È un’isterica e frigida.»


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