Il voto online per scegliere il candidato sindaco di Roma del M5S si svolgerà il 13 e 14 marzo: una ventina i candidati, ma la lista non è ancora definitiva. Saranno invece 57 i candidati per i 48 posti in lista per il Consiglio comunale. Sentiremo: sono Nando, ho fondato un fan club di Venditti e vorrei fare il sindaco de Roma capoccia.
Per le primarie del Pd si voterà il 7 aprile. E saranno primarie “non aperte, ma apertissime”, a tutti quelli che dichiarano di sottoscrivere “la carta di intenti della coalizione di centrosinistra e il codice etico”. Schierati Paolo Gentiloni, Patrizia Prestipino, Umberto Marroni, David Sassoli e Alessandro Bianchi. Sel ‘porta’ Luigi Nieri e Gemma Azuni. E ci sono i candidati del Psi, del Cd, l”indipendenté Sandro Medici, poi Ignazio Marino, e Goffredo Bettini. E più aperte di così: come si dice a Roma dei peperoni indigesti, si “rinfaccia” Alfio Marchini. Così forse sentiremo dire: mi chiamo Alfio, sono appassionato di cemento e voglio fare il sindaco di Roma.
Il Pdl delude la focosa Meloni e per bocca di Alfano ricandida Alemanno. Così ci aspettiamo: Mi chiamo Gianni sono fascista, non so fare niente, coltivo pessime amicizie, ma anche a me piace il cemento, sono perfetto per restare sindaco.
Il fatto è che a Roma non vuol bene nessuno, leghisti ieri e grillini oggi che vi si avvicinano con cauta diffidenza per paura di essere contaminati, come se da qua la corruzione circolasse venefica, contagiando operose città, oneste contrade, laboriose italiche geografie, inviolate da clientelismo e cementificazione, ignare di abusivismo e malaffare. Che invece parrebbe appartenere proprio al codice genetico della Capitale.
L’amano poco anche i suoi cittadini, ammalati di una accidiosa disaffezione che si manifesta non solo votando Alemanno, ma soprattutto esibendo una disincantata e mal mostosa indifferenza per le nequizie che vengono commesse, limitandosi a brontolare per gli oltraggi più efferati, facendo spallucce per le quotidiane ingiurie ai diritti di cittadinanza ed anche per le provocazioni sfrontate dei concittadini, come se la Capitale fosse un laboratorio sperimentale della tolleranza dell’illegalità che ormai caratterizza tutto il paese.
Si dice dipenda dalla combinazione malefica dell’influenza dei Savoia con quella dei Borboni, dei quali De Sanctis profetico diceva: “sotto di loro, corruzione e camarille in tutte le sfere. Ci sembra ancora di udire l’ignobile proverbio: chi non ha santi non va avanti”, un’anticipazione della “capitale corrotta, nazione infetta”, di “Roma ladrona”, della percezione universale che la città sia un catalizzatore di mali e misfatti e poi li ritrasmetta intorno.
Si dice possa derivare dallo stato di capitale “senza stato e troppa chiesa” o al contrario di una capitale con troppo stato, che da là invade come un’erba infestante, ma comunque senza “senso dello stato” e senza laicità.
Si dice da parte di chi la vede come il luogo di sintesi imperfetta del dualismo territoriale, che si debba attribuire al fatto che si è dilatata e gonfiata in modo abnorme grazie a immigrazioni interne, che è fatta di un popolo romano venuto da tutte le parti d’Italia, convenuti dal Mezzogiorno a costituire il ceto dell’amministrazione pubblica, dal Nord per alimentare il sistema dello spettacolo e della cultura, insomma di sradicati che conservano un rapporto privilegiato con i luoghi d’origine, per non dire di barbari poco attenti e affettuosi con la città che li ha accolti. Che anche la fama di accoglienza, soprattutto da Veltroni in poi è stata offuscata da energiche pulizie etniche comunali, da ordinanze e richiami al decoro degni dei peggiori sceriffi padani, da proibizioni del libero manifestare in nome della tutela di quei monumenti della cui cura ci si vorrebbe disfare per affidarla a improbabili mecenati o abbandonati nella più pervicace incuria. A volte viene di pensare che la sua bellezza addomestichi rabbia, sdegno, ribellione e li stemperi in una calma paciosa accettazione, salvo qualche fuoco qua e là che si accende in caso di più osceno insulto.
C’è da augurarsi che la nostra cittadinanza abborracciata insorga davanti all’affannarsi del fascistello che provoca e sbeffeggia i cittadini cercando disperatamente di far approvare a ridosso delle elezioni 62 deliberazioni in materia urbanistica. Decine di milioni di metri cubi di cemento che sfigureranno – se approvate – per sempre la città, eredità della Giunta Veltroni peraltro, che non aveva finito di confezionare il suoi doviziosi regali ai costruttori. Ma la storia nasce prima, quando il piano regolatore di Roma destina a fine anni ‘80 un’area di 14 ettari localizzata a nord, in via di casal Boccone a uffici privati: i proprietari potevano costruirci uffici privati. Prima Rutelli poi Veltroni perfezionano il “programma” sospeso nell’epoca di Mani pulite e dietro al quale si intravvede la presenza di Ligresti. Così nel 2005 viene sottoscritta la convenzione per costruire 220 mila metri cubi: 80 mila per uffici; 90 mila per commercio; 50 mila per un non meglio identificate “case albergo”. Anche il nuovo piano regolatore di Valter Veltroni approvato nel 2008 conferma le cubature previste dalla convenzione del 2005, ma la proprietà non procede: la crisi è alle porte e che business sarebbe un quartiere di uffici al servizio di aziende che non producono? Con i problemi del gruppo Ligresti, nuovi soci entrano nell’operazione: è pronto un nuovo progetto, caro si dice al Monte dei Paschi di Siena creditore dei Ligresti, e un anno fa viene approvato il Programma di intervento urbanistico residenziale denominato casal Boccone: si edificheranno 250 mila metri cubi di residenze per una popolazione di 2.000 abitanti, che si aggiungono ai 140 mila alloggi vuoti oggi esistenti, per inquilini e proprietari fantasma.
E mentre c’è un’altra parte di Roma che cresce e si espande, quella delle baracche delle vecchie borgate ritirate su in fretta, di bidonville di lamiere, innalzate come monumenti di quell’urbanistica globale della nuova povertà.