di Salvatore Denaro
Le elezioni politiche del 31 luglio in Zimbabwe vedono sfidarsi il Presidente Robert Mugabe – 89 anni, leader del partito Zimbabwe African National Union – Patriotic Front (ZANU–PF) e al potere dal 1980 – e l’attuale Premier Morgan Tsvangirai, 61anni anni, a capo del Movement for Democratic Change Zimbabwe (MDC-T). Sembra un remake di quanto accaduto nelle politiche del giugno 2008 in cui tensioni, violenze ed intimidazioni nei confronti degli oppositori di Mugabe stavano portando il Paese ad una guerra civile. Infatti, lo storico leader dell’ex Rhodesia del sud, nonostante brogli e illeciti per portare a casa la vittoria, non ottenne la maggioranza parlamentare ma riuscì ugualmente a vincere il ballottaggio presidenziale. Per le Nazioni Unite, G8 e Unione Europea si trattò di un voto assolutamente illegittimo, lontano dagli standard minimi di democrazia. Per evitare che la protesta nei suoi confronti potesse degenerare, Mugabe diede a Tsvangirai l’incarico di formare un governo di unità nazionale. Nonostante ciò, il Presidente è riuscito a tenere per sé le più importanti prerogative e a nominare alcune cariche chiave tra le quali diversi governatori provinciali e il direttore della Banca centrale, senza consultare il Premier. Anche due Ministeri fondamentali come quello degli Interni e della Difesa sono stati affidati a due uomini vicini al Presidente, rispettivamente Kembo Mohadi e Emmerson Mnangagwa. Tra il 2009 e il 2012, i due Ministeri hanno reclutato circa 10.000 tra poliziotti e soldati, creando una voragine di 150 milioni di euro nel deserto dei conti statali: nulla, purtroppo, di fronte alla drammaticità della situazione economica, politica e sociale in cui il Paese versa.
Nell’ultimo decennio lo Zimbabwe ha conosciuto la più grande crisi economica della sua storia ed è stato più volte sull’orlo della bancarotta. All’inizio del nuovo millennio Mugabe ha attuato una pesante riforma agraria, rivelatasi poi catastrofica per la debole economia del Paese, basata sulla progressiva espropriazione delle terre appartenenti ai farmers bianchi secondo la logica della redistribuzione alle famiglie autoctone. Parte degli appezzamenti di terreno furono suddivise in piccole particelle assegnate alle singole famiglie, mentre il resto fu “regalato” a politici e a Ministri che, nella maggior parte dei casi, li ha lasciati incolti. Di colpo il comparto agricolo dello Zimbabwe è sprofondato in una crisi irreversibile, anche perché gran parte dei terreni coltivati cominciarono ad essere lavorati con mezzi e strumenti agricoli idonei solo ad una economia di sussistenza. Da quella riforma il PIL dello Zimbabwe è crollato vertiginosamente, raggiungendo un tasso di crescita nel 2008 del -14,1%, con una diminuzione del reddito pro capite di circa il 40%. Numeri impietosi per uno Stato che in quegli anni ha raggiunto un altissimo livello di inflazione. Tra il 2005 e il 2008 la Banca Centrale ha continuato ad emettere moneta senza nessun criterio restrittivo: l’importante era riuscire a pagare gli stipendi alle forze di polizia e militari. Quest’operazione insieme alla concomitante svalutazione monetaria ha portato il dollaro dello Zimbabwe a diventare una moneta fantasma. Sempre la Banca Centrale nel 2007 ha dichiarato illegale l’inflazione e la polizia si è trovata spesso costretta ad arrestare chi aumentava i prezzi di beni di consumo. Nello stesso momento vennero messe in circolazione banconote da 200.000 dollari, dopo qualche mese da 50 milioni, poi da 250 milioni, fino ad arrivare al record di una banconota da 100 miliardi di dollari zimbabwiani, il costo di una pagnotta. Negozi deserti, 80% di disoccupazione, carestia, aumento degli episodi violenze, oltre il 30% della popolazione ridotta alla fame e assistita dalla comunità internazionale, con tutti i limiti e le difficoltà di un intervento umanitario in un contesto sociale prossimo alla guerra civile, era il triste scenario di uno dei Paesi più ricchi di risorse minerarie (è il quinto produttore mondiale di diamanti dopo Russia, Botswana, Repubblica Democratica del Congo e Canada; è il secondo produttore mondiale di platino e cromo; vi sono importanti riserve di oro, litio, tantalite, granito nero detto anche “zimbabwe black“, la cui produzione locale è esportata quasi interamente verso l’Italia).
La decisione di abolire nel 2009 la moneta locale e di adottare il dollaro statunitense insieme alla creazione di un governo di solidarietà nazionale con il nemico e capo dell’opposizione, Morgan Tsvangirai, ha scongiurato il peggio e invertito le tendenze economiche negative del Paese grazie anche al varo di un programma di sviluppo economico (Zimbabwe Medium Term Plan – MTP) largamente ispirato ai modelli cinese e brasiliano. Comprendendo la crisi di consenso, anche al di fuori dei confini nazionali, Mugabe ha inaugurato una nuova fase politica dai tratti pseudo-democratici ed è uscito dalla stretta dell’isolamento internazionale. La disoccupazione è cominciata a ridursi e il commercio con l’estero ha evidenziato segnali di ripresa. Gran parte del merito di questa debole inversione di tendenza è da attribuire proprio all’azione politica di Tsvangirai una volta assunte le responsabilità di governo. Il lavoro instancabile sia nel riallacciare i rapporti internazionali sia nel ripristinare alcune libertà soffocate da decenni di mugabismo, lo ha condotto a contendere a Barack Obama il premio nobel per la pace del 2009. L’“effetto Tsvangirai” ha avuto ripercussioni positive sull’atteggiamento di Stati Uniti e Unione Europea, che dal 2012 hanno inaugurato una nuova politica di cooperazione partendo proprio dalla riattivazione di importanti canali commerciali.
Stati Uniti e Unione Africana negli ultimi tempi non sembrano essere così intransigenti con Mugabe, proprio in relazione al fatto che appare difficile una sconfitta elettorale per l’anziano leader che ha potuto concorrere nonostante la recente approvazione della nuova Carta Costituzionale in ragione della non retroattività del limite ai mandati. Ad esempio, secondo Afro-Barometer, un’importante gruppo di ricerca africano, le speranze di Tsvangirai di vincere le elezioni sono pressoché minime, almeno fin quando sarà in gioco l’anziano Presidente. La Casa Bianca guida una parte della comunità internazionale ad ammorbidire le restrizioni economiche nei confronti dello Zimbabwe e preparare il terreno per il post-mugabesimo, visto che l’età ma soprattutto la malattia dello storico leader potrebbero rappresentare fattori decisivi nel prossimo futuro. Realtà importanti come il Sudafrica e la Comunità per lo Sviluppo dell’Africa del Sud (SADC), rimangono nettamente ostili alla figura ingombrante di Mugabe, sostenendo apertamente e pubblicamente la candidatura di Tsvangirai e del suo partito.
La sfida sul destino del Paese si gioca d’altra parte oltre che sui rapporti e sulle nuove dinamiche internazionali, anche sul terreno degli investimenti esteri che ne derivano. Su questo punto i due competitor hanno una visione totalmente opposta. Sposando lo slogan “L’Africa agli Africani, lo Zimbabwe agli Zimbabweani”, l’atteggiamento di Mugabe dal 1980 ad oggi è stato quello di scoraggiare e, in alcuni casi, di eliminare la presenza di stranieri che sfruttavano le ricchezze naturali dello Zimbabwe. A tal proposito una legge del 2010 voluta proprio dal Presidente, l’Indigenisation and empowerment Act, ha imposto alle imprese straniere di vendere la quota di maggioranza a partner “autoctoni”. Per contro, l’azione di rilancio dell’economia proposta da Tsvangirai si basa proprio sulla necessità di attrarre investimenti per creare nuovi posti di lavoro.
Il clima politico che si respira in Zimbabwe alla vigilia del voto non è dei migliori. La diatriba sulla scelta di Mugabe di fissare la data delle elezioni per il 31 luglio ha riacceso lo scontro. La stessa Corte Costituzionale, accusata di essere un organo tutt’altro che indipendente ed autonomo, ha avallato la decisione di Mugabe di non consultare il Premier. Tra accuse di brogli, violazioni della carta costituzionale e della legalità, al “Dinosauro dell’Africa” e al suo partito conviene andare alle elezioni più velocemente possibile, prima di un possibile scontro con Tsvangirai in merito alla riforma delle forze armate e dei media, ritenute necessarie dallo sfidante per dare più trasparenza all’intera tornata elettorale.
Secondo Amnesty International, in un Rapporto pubblicato lo scorso 12 luglio, in quest’ultimo periodo la polizia ha intensificato le intimidazioni e le persecuzioni nei confronti del personale di tutte quelle associazioni e organizzazioni che si occupano di monitorare la campagna elettorale. Dallo scorso novembre sono stati arrestati decine di persone che si occupavano di diritti umani in Zimbabwe. Secondo Noel Kututwa, vicedirettore del Programma Africa di Amnesty International, “la repressione contro i difensori dei diritti umani è un allarmante indicatore dell’ostilità del governo nei confronti della società civile”, – aggiungendo – “questa condotta è inaccettabile ed espressamente proibita dalla nuova Costituzione dello Zimbabwe. Dati i precedenti di violenza sponsorizzata dallo Stato, è destinata a produrre paura nella popolazione, specialmente tra coloro che hanno subito gravi violazioni dei diritti umani in occasione delle elezioni del 2008”. Per queste ragioni Amnesty si è appellata ad importanti organizzazioni territoriali come la Comunità per lo sviluppo dell’Africa del Sud e all’Unione Africana affinché possano monitorare, documentare e diffondere tutto quello che sta accadendo nel paese.
Il monito di Amnesty International, come quello di altre importanti organizzazioni, potrebbe rappresentare un piccolo aiuto per Tsvangirai, anche se la sua immagine nei confronti della popolazione zimbabwese non è quella di qualche anno fa. Il leader del MDC non rappresenta più la novità sul panorama politico nazionale. Attorno alla sua figura aleggia un sentimento di disillusione e sfiducia, alimentato anche da alcuni recenti scandali che hanno coinvolto Ministri e personalità politiche a lui vicine. Avvenimenti che assumono maggior rilievo se si pensa che Tsvangirai ha fatto della trasparenza e della lotta alla corruzione i cardini della sua azione politica.
Due spinte contrapposte sembrano dunque volere determinare l’esito delle elezioni: da un lato gran parte della comunità internazionale e le organizzazioni per la tutela dei diritti umani spingono per la fine del mugabismo e della sua ingombranza, dall’altro una situazione interna difficile dal punto di vista sociale e dell’organizzazione istituzionale e democratica rappresenta un ostacolo (quasi) insormontabile per il cambiamento.
* Salvatore Denaro è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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