In tutta Italia è stato affisso questo cartellone pubblicitario che raffigura un uomo seduto con un panno di microfibra Clendy in mano. Dietro di lui una donna nuda,coperta. Morta. Uccisa. Accompagnata dallo slogan ” elimina tutte le tracce“.
Elimina tutte le tracce come ha fatto l’assassino di Roberta Ragusa, ancora senza un nome, l’assassino di Yara Gambirasio e di molte altre donne morte ammazzate per scopi sessuali o per motivi di genere.
Esiste anche la versione femminile, che non si dica che la Clendy fa del sessismo. Una comunicazione così priva di qualsiasi intelligenza, non solo sociale, ma anche di mercato, la dedica a entrambi i generi.
Così ecco che una donna attraente ci mostra anche lei il panno con cui pulirà le tracce dell’omicidio del bellimbusto sdraiato a terra, dietro di lei.
Ci sono più considerazioni da fare. Prima di tutto, una differenza tra la versione femminile e quella maschile
La differenza tra le due versioni è che in quella maschile, la donna uccisa è nuda e sotto le coperte.
Rimanda quindi immediatamente ad un rapporto sessuale, ad una vita di coppia, ad una relazione finita con la morte di lei.
In quella femminile invece, l’uomo è vestito e a terra. Ci arriva quindi una storia meno scritta, potrebbe averlo ucciso per qualsiasi motivo, potrebbe essere anche per motivi di genere, ma lui non ha le cosce di fuori a sottolinearne la sua sessualizzazione anche dopo il rigor mortis.
A parte questa differenza sostanziale, le due versioni sono accumunate dalla stessa pochezza di interpretazione della realtà e dalla stessa stupidità dei contenuti espressi. Il punto è che la pubblicità della Clendy non istiga alla violenza, ma considera la violenza un sistema di linguaggio visivo accettabile per la pubblicità, come se non vivessimo in un paese con più di 120 morte per femminicidio nel 2012 e – al di là del genere – un altissimo tasso di omicidi. Insomma, è proprio il non cogliere la possibilità di interazione tra comunicazione di marketing e società che fa di questo Paese un luogo retrogrado e reazionario dove gli stereotipi “che male fanno”, finchè l’azienda fa profitto.
E non è certo la lobby dei panni in microfibra che ci fa scoprire questo. Aprono la strada le pubblicità di moda, dove la violenza è spesso erotizzata e venduta come glamour. Questa pubblicità ha un valore semantico diverso Qui la violenza venduta come irriverente.
Ma il sarcasmo si scontra con una realtà in cui c’è poco da ridere.
Nel 2012, 124 donne sono state uccise per mano del proprio partner. In Italia il femminicidio conta una vittima ogni tre giorni. Ieri, nei pressi di Macerata, è stato arrestato un uomo che ha fracassato il cranio alla sua exmoglie. Ennesimo episodio di femminicidio, fenomeno che non si è arrestato nemmeno con il nuovo anno.
L’immagine è agghiacciante in un contesto del genere. E’ difficile non indignarsi davanti all’ immagine di una donna uccisa da un uomo che si preoccupa solo di far sparire le sue tracce. Tutto ciò fa pensare all’accettazione del femminicidio, banalizzanto perfino da una vena ironica.
Perchè l’importante è far sparire le tracce, perché le donne in Italia non sono persone e la pubblicità di un Paese riflette la considerazione che un contesto ha delle donne. Il femminicidio è un problema che risiede all’interno della cultura del nostro paese, veicolata attraverso i simboli del linguaggio, del dibattito pubblico, della pubblicità e delle trasmissioni televisive.
Sul web ha sollevato una catena di polemiche, sopratutto femminili. Pochi, purtroppo, gli uomini che hanno classificato la pubblicità come “offensiva” e “pericolosa” e che siano stati in grado di riconoscerla come l’ennesima pubblicità che ritrae le donne come oggetti sessuali “da usare”, per poi disfarsene. Troppi quelli che hanno colto la presenza della versione con la carnefice donna come pretesto per asserire che vi sia parità di trattamento. C’è poco da definirla ironica e c’è poco da accusare le donne di “vittimismo” e di “moralismo” se quello che vediamo rappresentato è ciò che accade nella realtà. Ed è per questo motivo che è diritto di ognuna di noi sentirci amareggiate e indignate di fronte a tutto ciò e dire basta a tutti quelli che ci ridono sopra poiché questa è violenza simbolica e mancanza di rispetto.
Non è la prima volta che la pubblicità faccia ironia sul fenomeno. Ricordiamo le bustine di zucchero che raccontavano la barzelletta in cui un macellaio faceva a pezzi sua moglie. La pubblicità nel nostro Paese da 20 anni fa scempio dell’immagine femminile ma non era mai arrivata a questo punto. Nonostante le proteste delle donne il fenomeno del sessismo in pubblicità peggiora ogni giorno e c’è molto da fare per sensibilizzare anche gli uomini e che questo problema arrivi ad essere discusso in Parlamento per adottare un codice efficiente di etica pubblicitaria; ma prima ancora manca una cultura di base che rispetti le donne, se no le leggi che contrastino la violenza simbolica e materiale rischiano di essere insufficienti.