Presuntuosi e prepotenti evitino di perdere tempo, perché rimarranno delusi: queste righe non sono per loro, e neppure per i vanitosi. Qui non c’è spazio per Narciso o per Venere, ma solo per coloro che desiderano migliorarsi giacché non solo conoscono i propri limiti, ma partono dalla consapevolezza dell’importanza del limite e della comune distanza dalla perfezione. Una consapevolezza cui si può giungere, fra i tanti modi possibili, misurandosi con un dubbio: è possibile, senza scadere in una cupa apologia del difetto, elogiare l’imperfezione?
L’impressione, pensandoci bene, è che non solo si possa, ma si debba. Perché l’imperfezione può essere di vario genere – fisico, estetico o caratteriale - ma ha, anzitutto, una caratteristica fondamentale: è umana, naturale. Tutti, infatti, nasciamo imperfetti. Ed è un bene: perché è dietro un’imperfezione – sia essa un’anomalia o un’asimettria, una rarità o una peculiarità – che si cela la nostra unicità. E’ cioè la diversità tipica dell’imperfezione e delle imperfezioni a rendere speciale la nostra identità, diversamente esito d’una avvilente clonazione di massa.
Certo, a distinguerci dagli altri vi sono anche le qualità, pure quelle singolari e distribuite in dosi differenti così da rendere sfaccettata ed irripetibile la personalità, prima ancora che la persona, di ciascuno. Ma che cos’è la diseguale assegnazione delle qualità se non il rovescio della medaglia dell’altrettanto diseguale e corrispondente assegnazione dei difetti? Siamo quindi daccapo: è l’imperfetta eguaglianza a decretare l’umana somiglianza, l’apparentemente negativo a costituire il concretamente positivo, l’arricchente diversità a spiegarci il significato originale dell’unità, del bisogno repicroco.
Non vi fosse imperfezione, fossimo quindi ciascuno in grado di provvedere compiutamente alle nostre necessità e di corrispondere ai nostri desideri, a farne le spese sarebbe difatti il senso stesso della vita insieme: perché dovrei mai prendermi cura dell’altro, potendone sempre fare a meno? La perfetta autonomia porterebbe solo a perfetta disumanità. E pure all’illusoria idea di potercela cavare puntualmente da soli. Mentre invece sappiamo che nella vita – dalla nascita alla morte, dallo sviluppo alla vecchiaia – all’imperfezione segue, insopprimibile e costante, il bisogno di accompagnamento.
Ecco che allora sapere di essere imperfetti aiuta a crescere, a tenere a mente che ciò che si deve imparare supera sempre – e di molto – quel si può insegnare; che per quanto uno possa sia bello davanti a uno specchio, se non sa essere buono davanti agli altri, piaccia o meno, è solo bellezza sprecata. Compresi i pericoli della perfezione e i benefici del suo opposto, l’imperfezione non si trasformi però, nel concreto, in rassegnazione preventiva – mi arrendo subito perché, da imperfetto, non ci riuscirei – e rimanga quel che è: la nostra carta d’identità, quel che di noi è bene accettare per riuscire, presentandoci per quel che siamo, a farci amare.