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elogio egualitario del lusso

Creato il 03 marzo 2013 da Gaia

In una puntata del suo spettacolo di qualche mese fa Crozza raccontava di Landini che, quando gli è stato fatto notare che aveva il maglioncino come Marchionne, rispondeva: “ma il mio è comprato al mercato”. Crozza lo elogiava commosso: “resta così, Landini!” Io invece penso che, per uno che si batte contro la delocalizzazione, il minimo atto di coerenza richiesto sia comprarsi un maglione italiano. Magari in uno spaccio, magari uno solo per stagione, però un bel maglione italiano.
Si pensa, soprattutto a sinistra, che chi spende tanto per l’acquisto di un oggetto sia uno snob o, più spesso, un pollo. Io invece voglio sostenere che il giusto prezzo sia un concetto che deve appartenere alla sinistra e che chi cerca di spendere poco a tutti i costi vada criticato – non viceversa. Mi sento serena nel dirlo perché non dispongo di grandi capitali, anzi, per cui se posso comprare biologico io, per dire, può farlo davvero chiunque.
La mia tesi è che tutti debbano avere i mezzi per potersi concedere un po’ di ‘lusso’, e che sia bello desiderarlo. Importante: per lusso non intendo quello che si intende comunemente – che ne so, elettronica inutile di ultimissima generazione, capi di stilisti famosi, Porche, borse di Louis Vuitton, pochette in cucciolo di foca, corni amplificatori per i-phone placcati in oro, o simili. In generale, non mi riferisco a prodotti costosi ma globali e standardizzati con una decina di autori gratificati e ipercompetitivi e migliaia di esecutori a cui arrivano solo le briciole. Non parlo di status symbol, che servono a differenziare, non a fare contenti tutti. Né definisco lusso il riempirsi di grandi quantità di cose: penso invece, molto semplicemente, a oggetti (o cibo, o servizi, o arredamenti) di qualità, belli, curati, di cui si conosca l’origine e che diano piacere quando li si ha intorno o ne si usufruisce. Valgono anche cose autoprodotte o usate. Certo, c’è chi si sente asceta e aspira al minimo indispensabile, semplice e neutro – questo mi va anche bene, purtroppo però la semplicità oggi giorno, con la grande disponibilità di merce scadente a poco prezzo, diventa direttamente cattivo gusto, senza la purezza estetica dell’ascetismo.
Il lusso viene comunemente considerato superfluo: bè, anche andare a teatro è superfluo, fare una vacanza, leggere un libro o mangiare al ristorante. Allora non dovremmo fare nessuna di queste cose? Piuttosto, dovremmo incorporare la qualità nella nostra vita di tutti i giorni, anziché considerarla un’eccezione rara da vivere quasi con senso di colpa.
Non tutti siamo esteti, è vero. Io forse sono più sensibile di altri, ma non ce la faccio più a vivere circondata dalla bruttezza. Palazzine anonime, stracci dei centri commerciali addosso alle persone, cibo da supermercato sulle tavole, odori sintetici, arredamenti dozzinali, e così via praticamente per ogni cosa della mia vita. Viviamo nella bruttezza, salvo qualche settimana di ferie all’anno in cui cerchiamo rifugio in posti migliori, a loro volta sfregiati dal cattivo gusto o dalla pressione antropica. Io invece propongo: circondiamoci di bello, così staremo bene tutto l’anno. Non penso di dover dimostrare che tutti aspirano al bello, bello per ogni senso ovviamente, non solo per la vista. Se così non fosse, nessuno andrebbe al mare o in montagna, desidererebbe diventare ricco, curerebbe il giardino, sfoglierebbe i libri attratto dalla copertina, guarderebbe diverse case prima di comprarne una, e così via. Se così non fosse, non ci emozioneremmo davanti a un tramonto o a una vetta, o non faremmo i complimenti a chi si veste bene.
La mia obiezione allo stile di vita moderno in questo caso si articola in due punti: abbiamo perso il senso del bello, e non abbiamo la consapevolezza di averne bisogno.
Sul senso del bello penso che mi soffermerò in futuro: è un argomento troppo ampio. Sulla consapevolezza di averne bisogno, credo vada acquisita, e sarà più facile per chi si sente di sinistra se si comprenderà anche questo corollario: una società in cui tutti aspirano al bello e si impegnano per realizzarlo è una società di bellezza collettiva, in cui tutti stanno meglio.
Questo vale per l’urbanistica, o la gestione del territorio, che sono cose pubbliche, ma anche per la bellezza individuale. Io penso che una persona vestita in maniera colorata o di gusto, un balcone fiorito, un muro dipinto di un colore allegro, siano un piacere per tutti, non solo per chi possiede il vestito, il muro o il balcone.
Ma torniamo al lusso. Si dice che è la speranza per l’economia italiana: sfornare Ferrari e borsette di pelle da vendere ai ricchi emergenti della Russia e della Cina. Ma perché? Solo per la Dea Economia. Per i salari, per un po’ di prestigio. Perché gli operai che producono la merce di lusso guadagnino pochi soldi da spendere al centro commerciale, mentre chi li sfrutta possa concedersi tutto quello che vuole.
No. Tutti devono avere la possibilità di comprarsi qualcosa di bello, il mondo non deve dividersi in chi possiede quaranta vestiti di Valentino e chi si fa venire la sindrome del tunnel carpale per cucirli!!
Infatti io i vestiti li faccio da me. E se voglio comprare qualcosa, cerco di saltare intermediari e parassiti (quelle figure che si arricchiscono a dismisura grazie al lavoro altrui) e comprare direttamente dall’artigiano. Un’odiosa abitudine tipicamente friulana è, quando si chiede un prezzo e la risposta non piace, far capire chiaramente con un gesto o una frase che si considera quel prezzo eccessivo e che il venditore può sognarsi di riceverlo. Io invece dico sempre: “grazie”, oppure, sorridendo: “non posso permettermelo”. Ognuno deve poter chiedere il prezzo che ritiene di meritare per il proprio lavoro, e se il prezzo è troppo alto, semplicemente non lo riceverà, ma non dev’essere umiliato per questo.
Lo stesso vale per il biologico, l’equo solidale, l’artigianato, e così via. Una persona di sinistra (ma qualsiasi persona, sottolineo di sinistra perché a destra ci sono molti ricchi) non può riempirsi la bocca di discorsi sul lavoro e poi rifiutarsi di pagare al lavoratore il giusto prezzo! Quanti operai si vedono protestare contro la delocalizzazione vestiti da testa a piedi di merce prodotta in Asia in condizioni pessime e salari bassissimi?? Poi ci si giustifica dicendo che è l’unica roba che ci si può permettere. E se vai a vedere le case di queste persone, le trovi straripanti di oggetti inutili, prodotti a condizioni che loro rifiuterebbero. Capite il paradosso?
Vi faccio un esempio pratico di cosa intendo. Recentemente ho avuto bisogno, non scandalizzatevi, di un paio di mutande. Dato il mio budget ridotto, mi sono trovata a un bivio. Da un lato c’erano Intimissimi e Tezenis, con la loro merce dozzinale e solo apparentemente carina, di scarsa qualità e prodotta dove la manodopera costa poco (generalmente Sri Lanka), propagandata grazie a foto di donne tutte uguali pagate per i loro servizi infinitamente di più di quanto vengono pagati quelli che la biancheria l’hanno effettivamente fatta. Potevo comprare lì, da una di queste due mega aziende (tra l’altro i negozi delle catene a Udine tengono il riscaldamento acceso con le porte aperte, andrebbero boicottati anche solo per quello). Dall’altro lato invece c’era una giovane stilista inglese indipendente che si è messa in testa di rilanciare l’industria tessile britannica, e produce in piccoli laboratori locali biancheria di qualità in tessuti naturali. Ovviamente, la sua merce costa tre volte tanto. Ma è bellissima, curata nei più piccoli dettagli, e accompagnata da una serie di considerazioni storiche e ricerche estetiche. Questa stilista ha fatto rete con altre aziende animate dalla stessa filosofia, per aiutarsi a vicenda.
Tra le due possibilità, io ho deciso per la seconda (in saldo). Man mano che mi serviranno borse, altra biancheria, scialle, o persino gioielli, cercherò se possibile di fornirmi da artigiani locali, e ce n’è davvero tanti, le cui tecniche produttive, il cui impatto sull’ambiente e sui diritti dei lavoratori, e la cui filosofia artistica, posso conoscere personalmente. Nonostante le tasse e la troppa burocrazia, un artigiano è libero: decide come e quanto lavorare e gode direttamente dei frutti del suo lavoro. Fa qualcosa che gli piace e al ritmo che preferisce, o se non altro che contratta liberamente. Non era Marx a parlare di alienazione dell’operaio? Cosa c’è di più comunista del comprare da un piccolo artigiano?
Non voglio idealizzare questa figura: anche per gli artigiani è dura; spesso il loro è autosfruttamento. Ma penso che sia così perché le persone non li capiscono. Perché si dà troppa importanza al prezzo, piuttosto che al valore sociale creato spendendo un po’ di più – e si contratta come matti al ribasso.
Faccio un altro esempio. Per non cadere nello scontato, cioè cibo biologico ed equo solidale (con un budget di duecento euro al mese tutto compreso, ma ce la faccio), parlo delle penne. Non voglio più usare penne usa e getta. Sono brutte e finiscono subito. Da anni uso una penna di metallo ricaricabile, e l’ultimo refill ha retto a mesi di utilizzo intensissimo e non si è ancora esaurito. Devo ancora informarmi sulle tecniche di produzione, ma penso sia almeno meglio per l’ambiente perché si creano meno rifiuti. Sembra snob? Perché? Che male c’è a volere un oggetto bello e duraturo per un gesto quotidiano? Che male c’è a colorare una parete o una bicicletta, ad appendere un quadro, a presentare agli ospiti una tavola imbandita e curata quando vengono a cena? Sono tutti gesti che denotano la stessa aspirazione a circondarsi di bellezza.
Questo è diverso dal consumismo che ci impone di trovare brutto quello che ieri era bello, di essere sempre scontenti e nel tentativo vano di sfuggire a questa scontentezza distruggere il mondo. Fate caso ai tagli e ai colori di capelli di moda tra le donne, per esempio. Io li trovo sempre più brutti, eppure prendono piede. Perché? Perché nella nostra società è incomprensibile, una volta che troviamo qualcosa che ci piace, non volerlo comunque cambiare.
Aggiungo altri due esempi che sottolineeranno com’è conformista e borghese il codice vestimentario udinese e friulano. Gli udinesi e i friulani si vestono di colori scuri. E non dico smeraldo, borgogna o vinaccia: dico blu e nero, e i peggiori blu e i peggiori neri che ci siano. Vietato mostrare allegria, vietato distinguersi. Mi ricordo di commenti tipo: come ti vesti non sei un semaforo, o: come si è conciato quello (una sciarpa a righe rosse), e così via. Studiando l’antropologia dell’abbigliamento alpino tra sette e ottocento, rimango incantata da quanti messaggi mandasse il colore delle gonne, delle balze e dei grembiuli (donna nubile vs sposata, o vedova, appartenenze a un paese piuttosto che a un altro…), nonché quanta simbologia ci fosse nelle stampe e nei ricami. Nemmeno questo è rimasto. Ora l’unico messaggio che mandi è: quanto puoi spendere. Ho notato che in Veneto è più o meno la stessa cosa, e presumo in tutto il nord Italia.
(Sì lo so, le ho già scritte queste cose).
Il nostro abbigliamento triste, però, dev’essere lindo e ordinato. Sto combattendo una battaglia contro la mia famiglia che si vergogna che io metta i maglioni con i buchi. Nel mio terrorizzato atteggiamento negazionista riguardo alla presenza di insetti in casa, mi sono rifiutata di contemplare la possibilità di avere tarme: adesso è troppo tardi. Ma io quei buchi non li voglio chiudere: mi sembra una perdita di tempo e una resa intollerabile a imposizioni benpensanti.
Insomma, avrete capito che razza di contorta estetica risulta dalle mie idee e convinzioni (mi chiedevate i miei gusti: eccone un po’). Una specie di look da nobile decaduto dell’ottocento, che mette vestiti ottimi, ma tutti stracciati. Che studia e imita la cultura popolare proprio nel momento in cui la cultura popolare vuole imitare quella cittadina, e si appiattisce e si scurisce; che scopre il folk appena prima che si estingua (ora in realtà è estinto da un pezzo).
Avete mai fatto caso a quanto più belle sono le pareti il cui colore è un po’ venuto via, nei decenni, piuttosto che quelle dipinte di fresco? Nella nostra società iperconsumista, ci si è dimenticati anche della bellezza che si acquista nel tempo: la bellezza deve essere prodotta e smerciata velocemente, per esigenze di mercato.
Ma adesso veramente divago.
Concludo. Io, come ogni essere umano, aspiro al bello, non come evasione ma come ambiente. Non voglio la seconda casa: ne voglio solo una in un posto in cui sto bene. Non voglio cambiare vestiti: voglio averli belli. Non ho domeniche: mangio bene tutti i giorni, e per bene non intendo tanto o costoso, ma cose buone e sane. Voglio una redistribuzione dei redditi perché nessuno guadagni eccessivamente anche se è bravo, e perché tutti possano permettersi di vivere nella bellezza. Non nell’abbondanza. Nella bellezza.


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