Il concetto marxiano di "feticismo della merce" indica non solo una mistificazione della coscienza, un velo, come spesso di crede (ed ancor meno abbiamo a che fare con un gusto smodato per il consumo). Esso costituisce un fenomeno reale: nella società capitalista, tutta l'attività sociale si presenta sotto forma di valore e di merce, di lavoro astratto e di denaro. Il termine "feticismo", che Marx, con un pizzico di ironia, prese in prestito dall'etnologia e dalla critica delle religioni, è molto appropriato. Così come i pretesi "selvaggi", anche i membri della società di mercato proiettano il loro potere sociale su degli oggetti inanimati, da cui ritengono di dover dipendere. Nessuno lo ha mai deciso: tale feticismo si è costituito sulle spalle dei partecipanti in modo inconscio e collettivo, ed ha preso tutta l'apparenza di una realtà naturale e trans-storica. Il feticismo della merce esiste laddove esiste una doppia natura della merce e dove il valore di mercato - che viene creato dalla parte astratta del lavoro ed è rappresentato dal denaro - forma il legame sociale e decide perciò del destino dei prodotti e degli uomini, mentre la produzione del valore d'uso non è che una sorta di conseguenza secondaria, praticamente un male necessario. (Ho parlato di " parte astratta del lavoro", perché è più chiara di "lavoro astratto": in effetti ogni lavoro, in regime capitalista, possiede una parte astratta ed una parte concreta, e non sono affatto due generi distinti di lavoro.)
Marx chiama il valore, il soggetto automatico: la valorizzazione del valore, in quanto lavoro morto, per mezzo dell'assorbimento del lavoro vivo, e la sua accumulazione in capitale, che governa la società capitalista, e riduce gli attori sociali a delle semplici rotelle di tale meccanismo. Secondo Marx, i capitalisti stessi non sono altro che i «sottoufficiali del capitale». La proprietà privata dei mezzi di produzione e lo sfruttamento dei salariati, il dominio di un gruppo sociale su un altro e la lotta delle classi, tutte cose ben reali, non sono altro che le forme concrete, i fenomeni visibili alla superficie, di questo processo più profondo che è l'assoggettamento della vita sociale alla creazione di valore. Marx non ha fatto altro che afferrare questa situazione - la quale è storicamente unica ed in rotta completa con le forme precedenti di società, sotto numerosi aspetti - e definirla con il termine di «feticismo della merce», che ha il vantaggio di indicare come il capitalismo faccia quanto meno parte della storia delle costituzioni inconscie dell'umanità e, contemporaneamente, che è del tutto irrazionale come i sistemi religiosi che l'hanno preceduto.
Ma questo vuole anche dire che la più parte degli antagonismi sociali nella società di mercato non si applicano all'esistenza stessa di queste categorie. Già nel XIX secolo, il movimento operaio si è limitato, dopo le resistenze iniziali, a domandare una diversa ripartizione del valore e del denaro tra coloro che contribuiscono alla creazione del valore per mezzo del lavoro astratto. Quasi tutti i movimenti che contestano il capitalismo - diciamo la "sinistra" - non considerano più il valore ed il denaro, la merce ed il lavoro astratto, come i dati negativi e distruttivi, tipici del solo capitalismo, che dunque devono essere aboliti in una società post-capitalista. Loro vogliono semplicemente redistribuire secondo i criteri di una migliore giustizia sociale. Nei paesi del socialismo reale, si pretendeva che un altro potere "pianificasse" in modo cosciente queste categorie, benché esse fossero, per essenza, feticiste e inconscie. Una volta che la "lotta di classe" divenne nella pratica - retorica a parte - una lotta per l'integrazione degli operai nella società di mercato, e, dopo, una lotta per l'integrazione o il "riconoscimento" di altri gruppi sociali, non si è combattuto altro che per sistemare dei dettagli. Inoltre, questo genere di lotta ha sovente aiutato - senza che gli attori se ne rendessero conto - il capitale a raggiungere il suo stadio successivo, contro la volontà della parte più limitata dei proprietari di capitale. Così, il consumo di massa nell'epoca fordista e lo Stato sociale, lungi dall'essere solo delle "conquiste" dei sindacati, hanno permesso al capitalismo un'espansione esterna ed interna che lo ha aiutato a compensare la caduta continua della massa di profitto.
In realtà, la maggior contraddizione del capitalismo non è il conflitto fra il capitale ed il lavoro salariato - dal punto di vista del funzionamento del capitale, il conflitto tra capitalisti e salariati è un conflitto tra i portatori viventi del capitale fisso e i portatori viventi del capitale variabile, dunque un conflitto immanente al sistema stesso. La contraddizione maggiore, piuttosto, risiede nel fatto che l'accumulazione del capitale mina inevitabilmente le sue proprie basi: solo il lavoro vivo crea valore. Le macchine non aggiungono nuovo valore. Tuttavia, la concorrenza spinge ogni proprietario di capitale ad utilizzare il più possibile di tecnologia per produrre (e dunque per vendere) a prezzi migliori. Aumentando il proprio profitto nell'immediato, ciascun capitalista contribuisce, senza volerlo, senza saperlo e senza poterlo impedire, a diminuire la massa globale del valore, e quindi del plusvalore, e quindi del profitto. Per molto tempo, l'espansione interna ed esterna del capitale ha potuto compensare la diminuzione del valore di ogni particolare merce. Ma con la rivoluzione micro-elettronica, a partire dagli anni '70, la diminuzione del valore ha continuato ad un ritmo tale che non è stato possibile fermarla. Da allora, l'accumulazione di capitale sopravvive essenzialmente sotto forma di simulazione: credito e speculazione, cioè denaro fittizio (denaro che non è il risultato di una avvenuta valorizzazione per mezzo dell'utilizzo di forza-lavoro). Oggi va di moda attribuire tutta la colpa della crisi e delle sue conseguenze alla speculazione finanziaria: ma senza di essa, la crisi sarebbe arrivata molto più lontano.
Una gran parte del pensiero che, oggi, si pretende anti-capitalista, emancipatore, ecc., si rifiuta ostinatamente di prendere atto di questa nuova situazione. Le "lotte di classe" in senso tradizionale, e quelle che le hanno rimpiazzate nel corso del XX secolo (le lotte dei "subalterni" di ogni genere, delle donne, delle popolazioni colonizzate, dei lavoratori precari, ecc.) sono piuttosto dei conflitti "immanenti", che non portano al di là della logica del valore. Quando lo sviluppo del capitalismo sembra aver raggiunto i suoi limiti storici, queste lotte rischiano spesso di limitarsi alla difesa dello status quo, e di ricercare migliori condizioni di sopravvivenza nel mezzo della crisi. Cosa perfettamente legittima, ma difendere il proprio salario o la propria pensione non ci porta, in sé, al di là di una logica dove tutto è sottomesso al principio di "efficienza", dove il denaro costituisce la mediazione sociale universale e dove la stessa produzione delle cose più importanti può essere abbandonata, se essa non si traduce in valore, e quindi in profitto.
Meno che mai, ha un senso chiedere delle "misure per l'occupazione", o di difendere i lavoratori perché essi "creano del valore". Bisognerebbe piuttosto difendere il diritto di ciascuno a partecipare ai benefici della società, anche se lui o lei non riesce a vendere la propria forza-lavoro.
Quello da cui bisognerebbe emanciparsi, sono il denaro e la merce, il lavoro e il valore, il capitale e lo Stato in quanto tali. Non si può più giocare uno di questi fattori contro gli altri, considerandolo come il polo positivo: né lo Stato contro il capitale, né il lavoro astratto nel suo aspetto morto (il capitale) contro lo stesso lavoro astratto nel suo aspetto vivo (la forza-lavoro, il salario). E' difficile attribuire il compito di superare il sistema feticista a dei gruppi che si sono costituiti per mezzo dello sviluppo della stessa merce, e che si definiscono per il loro ruolo nella produzione di valore.
Negli anni '60 e '70, i movimenti di protesta erano spesso diretti contro il successo del capitalismo, contro l'abbondanza della merce, e si esprimevano in nome di un'altra concezione della vita. Le lotte sociali ed economiche odierne sono caratterizzate, al contrario, dal desiderio che il capitalismo mantenga almeno le sue promesse. Piuttosto che di anti-capitalismo, si tratta allora di alter-capitalismo. Si capiscono così i limiti del discorso sulla "democrazia diretta" e sulla "autogestione" operaia (o altra). La democrazia non è affatto del tutto incompatibile col capitalismo. Al di là di un uso enfatico della parola, le sue forme storicamente reali non sono state affatto strappate, per mezzo di lotte popolari, ad un capitalismo recalcitrante. Una volta che le forme feticiste sono state interiorizzate a sufficienza dalla grande maggioranza della popolazione, la democrazia costituisce la forma di dominio meno costosa: i soggetti democratici, allora, applicano spontaneamente, e contro sé stessi, le "necessità economiche", le "leggi della realtà", gli "imperativi tecnologici", le "aspettative di mercato", ecc. Allo stesso modo, una fabbrica gestita democraticamente dagli operai che lavorano rimane - nel contesto di una società che continua a funzionare secondo le leggi di mercato - condannata a generare dei profitti per mezzo del lavoro astratto, ecc. I suoi membri possono anche - sempre molto democraticamente - decidere di licenziare una parte di loro, al fine di abbassare i costi e sopravvivere sul mercato ... D'altronde, non sarebbe impossibile - almeno teoricamente - che tutte le imprese venissero gestite sotto forma di "azionariato popolare". E' il capitale che regna, non i capitalisti, ed il capitale può anche avere, come amministratori, i suoi propri salariati che seguiranno le leggi pseudo-oggettive del capitalismo.
E' all'interno della problematica ecologica, che sembra porsi un po' di più la questione del senso dell'insieme. Tuttavia, la mancanza di una visione globale porta rapidamente gli ecologisti a scivolare verso dei propositi di gestione alternativa del capitalismo. Sbarazzarsi anche della colonizzazione dei nostri cervelli, per mezzo del rifiuto della pubblicità e della tirannia tecnologica, è parimenti importante, ma si rischia di rimanere sulla difensiva e di limitarsi ad una sfera particolare. E' vero che alcuni approcci come la "decrescita" recano la consapevolezza che bisogna fare un cambio di civiltà, non solo di modelli economici. Il "capitalismo", e non solo i capitalisti, i banchieri ed i ricchi, mentre "noi", la gente, il popolo, saremmo quelli "buoni". Il capitalismo è un sistema che ci comprende tutti, nessuno può pretendere di esserne fuori. Lo slogan "noi siamo il 99%" è assolutamente il più demagogico ed il più stupido che si può sentire, ed è potenzialmente il più pericoloso.
Ma il capitalismo è anche un sistema che lavora per il suo crollo, che non può soddisfare i bisogni umani, che prepara disastri sempre più gravi e condizioni di vita insopportabili. Esso condanna l'umanità a rinunciare ad un uso ragionevole delle sue risorse, e a dilapidarle per salvaguardare la valorizzazione del valore. Ciò che lo condanna non è il semplice fatto di essere malvagio, anche perché la società precedente lo è stata ugualmente, malvagia; è la sua propria dinamica a spingerlo contro il muro.
A dire la verità, spesso, si ha l'impressione che sia tutto il mondo a desiderare di metterlo sotto accusa. Essere sfruttati è diventato pressoché un privilegio (i resti del vecchio proletariato di fabbrica, in Europa, si difende con le unghie e con i denti) nel momento in cui il capitalismo trasforma sempre più persone in "uomini superflui", in "rifiuti". Ma l'impatto congiunto della crisi economica, della crisi ecologica e della crisi energetica, costringeranno presto a delle decisioni drastiche. Nessuno può garantire che saranno buone decisioni. La crisi non è più sinonimo di emancipazione, tutt'altro. Conoscere i problemi diviene allora centrale, e disporre di una visione globale diventa vitale. Ecco perché una teoria sociale focalizzata sulla critica delle categorie di base della società di mercato non è un lusso teorico, che rimane lontano dalle preoccupazioni reali e pratiche degli esseri umani che lottano, ma una condizione necessaria per qualsiasi progetto di emancipazione.
- Anselm Jappe - Losanna, Ottobre 2012 -