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Emilio Ricci: Ufficiale medico e poeta

Da Paolo Statuti

emilio ricci

Quest’anno nell’ambito del centenario della Grande Guerra, desidero ricordare il centenario ad essa legato della morte di Emilio Ricci, medico e poeta, che perì eroicamente a ventiquattro anni il 27 agosto 1915 nel bombardamento, da parte degli Austriaci, della chiesetta alpina di Doberdò, adattata a ospedale militare, mentre assisteva i soldati feriti (Croce al merito di guerra e Medaglia d’argento alla memoria).

Era nato a Torremaggiore (Foggia) il 17 gennaio 1891. Iniziò gli studi medi nel seminario di Capua, da dove si allontanò per contrasti con i superiori, e li concluse al Liceo di Santa Maria di Capua Vetere, da privatista. A Napoli, nel 1914, a soli ventitré anni conseguì la laurea in Medicina e Chirurgia. Uomo di acuto e versatile ingegno, padroneggiava ben dieci lingue e conosceva perfettamente varie opere, in prosa e in versi, antiche e moderne, tra cui l’intera cantica dell’Inferno di Dante. Di lui si ricordano i Canti, la tragedia in versi Luigi Serio eroe della repubblica partenopea, i poemetti Il Vesuvio (in frammenti) e Titanic, le opere in prosa incompiute Il sonno e La passione di Gesù Cristo, la traduzione in versi delle Georgiche di Virgilio, l’Epistolario.

Mente vivida e cuore generoso, amante della libertà e della democrazia (chiese di partecipare alla spedizione di Ricciotti Garibaldi per l’indipendenza albanese); difensore degli umili (“siamo tutti uguali”), ebbe una fede profonda nella giustizia e nell’amore tra gli uomini, e tradusse i suoi alti sentimenti in una poesia profondamente umana.

Un anno dopo la sua prematura e tragica scomparsa, la madre riuscì a raccogliere buona parte del materiale inedito del figlio, inserendolo nel volume Versi e lettere di Emilio Ricci di Torremaggiore, contenente gli scritti poetici e le epistole, pubblicato nello stesso 1916 dalla casa editrice barese Giuseppe Laterza e con una bella prefazione del filosofo Benedetto Croce. Eccone un frammento: “Il linguaggio poetico del Ricci è quello corrente degli uomini; il suo canovaccio è lineare e si enuclea per sezioni simmetriche accessibili ad ogni sorta di cultura; le sue rappresentazioni, il nesso musicale e la sintassi lirica si rivelano immediatamente intuitivi. E’ una poesia che sa giungere direttamente al cuore e, sia che si presenti in veste polemica, sia che reciti in chiave emotiva o erudita o ideale, essa conquista subito la ragione, l’animo, la mente. Scrive Pasquale Ricciardelli nel suo saggio La poesia di Emilio Ricci e un giudizio del Croce”: “La poesia di Emilio Ricci fu piuttosto tradizionale, con lieve tendenza al classico. I movimenti letterari e poetici coevi (scapigliatura, simbolismo, ermetismo, futurismo, ecc.) non lo ebbero né discepolo, né militante. Preferì la poesia aulica e anche quella del miglior Romanticismo, accostandosi a volte al realismo, al verismo, al purismo… La sua lirica è calda, potente, espressiva e quasi sempre esce dal vero. Essa poi, si addolcisce in modo straordinario di fronte ai sentimenti umani e la sua facondia diventa commovente, elegiaca, idilliaca quando descrive la natura. Par di vedere dei quadri teocritei: tanta sincerità vi spira!…”

Di questo ventiquattrenne poeta ed eroe della Grande Guerra ho scelto queste poesie dal volume Versi e lettere di Emilio Ricci, Bari, Laterza, 1916.

 

   IV

«Terra», saluta il navigante e al giubilo

disserra il cuore. Oh! come giova i figli

e la sposa abbracciare e la salvata

merce additar e dir gli affanni e l’ansia

e il pallore e il periglio

ultimo, allor che il mare e il ciel, mischiando

duro conflitto, minacciâr rovina!

Solo alquanto pensosa

al mar guarda la sposa,

pavida già del prossimo viaggio.

Dimani, al mar tornato,

egli s’avvede quanto breve è il gaudio

di quei ch’ognor gl’informi flutti solca.

Tale nell’inesperta

delle fortune umane, alma assetata

di libertà, già sogna il patriota,

ch’ove si nacque in servitude e dove

le menti e i cuori avvolse

astuzia di chiercuti,

di verace grandezza

faccia virtù risorgere l’esempio.

E già rimira di soldati invitti

caterve germinare

dal seno popolare;

e libere dal freno

le discipline del pensiero ardite,

e il superbir di sua nazione, e il retto

vivere, e alla difesa il forte petto,

rinnovellare i più gloriosi tempi.

(da: Gli  studenti di medicina, 1911)

     VI

Napoli mia, che l’olezzante crine

spargi sulle colline

e voluttuosa il sen specchi nell’onde;

lo scampato ramingo,

girando le tue vie tristo e solingo:

«Come te, – pensa, – o deliziosa terra,

inorgogliva un dì la mia Messina:

del traffico crescente

il porto affaccendato;

in sulle dritte vie,

romorose di gente e di vetture,

dei superbi palagi ordine lungo;

suaveolenti al maggio orzi fronzuti,

e per le cieche spire alto premuti

gli argentei zampilli;

e quando diè di vita e di vigore

agli uomini natura,

e quanto dei mortal lunghissim’arte

di comodo e delizia lor procura,

un sol momento, uccide, strugge, abbatte».

Quindi ripensa la dimora avita,

il repentino abisso,

dei suoi parenti gli ululati nomi

senza risposta, il dubbio orrendo, l’ansia,

la fame, il puzzo, il freddo

della marcente piova,

la riveduta luce

della morte più truce,

i mucchi di cadaveri anneriti,

i vani atteggiamenti

della muliebre disperazione,

il mesto addio a quei funerei avanzi.

E più s’attrista in rimirarsi innanzi

di giovani animosi e di donzelle

schiera ridente, ignara

quanto a quell’uom torni la vita amara.

Similemente orfano bimbo occhieggia

madre che il figlio in riso al sen si porta,

e i suoi bei dì rammenta e si sconforta.

    VII

O dolcissimo amore,

cui nessun altro crolla,

del suol che ci fu cuna e ci nutrisce,

sia che benigno il ciel, pingue la zolla,

il Capuan renda felice, sia

che teman le due Torri e la Resina

non le disperga Vesuvian furore,

o pauroso ascolti l’Alpigiano

precipitar la valanga crosciando;

qual altro affetto può nel cuore umano

in tua vece allignare?

Qual contrada o sorriso

l’orfano cittadino

può consolar della distrutta madre?

Or chi è colui che disperato vaga

sulle rovine squallide,

di pallore mortal sparso la fronte?

Forse rapigli la fatal sventura

i figliuoli, la sposa?

Forse il martira altra più atroce cura?

Ecco nel pugno balenar fa un’arma,

già nel seno l’ha spinta,

e si trafigge e dice:

«Spegnersi è dolce in sulla patria estinta».

(da: Per il terremoto di Reggio e Messina, 1909)

  

   III

Ella febricitava, e ai dolci figli

volto il pensier, si gìa rammaricando

del vietato dal ciel ultimo amplesso,

e invan dissimulando

io l’ingannava sull’ardor che i polsi

bruciavale e la fronte,

e a cui l’esauste membra

ella temea ceder dovesser pronte.

O che spirto seren oltre la vita

traveda il nulla, o che folle credenza

fantastiche delizie attenda altrove,

veggiamo ognora nei convulsi moti

onde il viver si spegne,

ove pur splenda all’intelletto esausto

alcun barlume di conoscimento,

fissar le luci il moribondo ai fidi

volti dei cari, ed unico conforto

pregare a che la rimembranza almeno

non s’estingua con lui;

e nel solenne dono d’un anello,

in un supremo abbraccio,

o detto, o guardo, o riso, la fuggente

vita eternar vorrian nell’altrui vita.

Ahi misera! morir dovea lontana

dal suol natio, dai figli suoi lontana,

ignara di lor sorte,

su stranio letto, in mezzo a strania gente.

   IV

Così viveano; io l’alma contristata,

stanco di veglia il corpo,

miravo pur che l’ultima tenèbra

impallidisse a l’oriente estremo.

Quindi uscivo al mattin; per la distesa

del turchin mare il luccicante sole,

l’aura odorata di salsedin fresca,

l’allegre frotte dei fanciulli, a gaudio

sollevavano il petto,

in quell’albergo di martirii oppresso.

Così gioisce chi lunga stagione

in orrida prigione

il viver trasse, quando alfin rimira

il ciel e i campi e il liber’aere aspira.

Ma perché poi all’inquiete piume

invan chiedea ristoro?

Perché all’usata mensa

mal volentieri assiso,

coi lieti amici invan fingea il sorriso?

Lento pareami il sol, l’ora tardava

ch’in quell’ospizio rimettessi il piede.

Sii benedetto, amor dell’uman seme,

amor che dal soffrire

prendi vigore, amor che non del mutuo

dei corpi godimento,

ma di te stesso sazii,

amor che al mondo esser dovresti solo

virtute, dio, religione, tutto!

(da: L’ospedale della Maddalena, 1910)

   PER NOZZE

   I

Quale di ruscelletto la frescura,

che querula trascorra il piano erboso,

o di montano ischieto la verzura

a cui Zefiro mova il crin selvoso,

nell’affocato giugno che matura

il sudato raccolto al piano afoso,

alle riarse membra ed alla dura

fatica è del villan dolce riposo:

tal dei perenni mali, ond’è molesta

l’umana vita , e dell’assiduo e rio

travaglio del pensier che ne funesta,

facile tregua e riposato oblio

agli animi gentili Amore appresta,

e dolcezza che vince ogni desio.

   II

Ove la gelid’Orsa assidua preme

fallaci terre, rosa non germoglia;

ma là pompeggia l’odoroso seme

u’ l’aria mite al fertil suol s’ammoglia.

Così l’Amor sol in quel petto freme

che generosi ed alti sensi accoglia,

che le viltà disdegni e schivi insieme

di vaghezza il mutar se mai gli doglia

d’Amor la fersa. Coll’età novella

ne coglie il fior, ma pianta le dimore

dove più culta sia la sua facella.

Al ciel vanto è l’azzurro, ai fior l’odore,

il canto al rusignuol, alla donzella

la negra chioma, al giovine l’Amore.

   FEDE E SCIENZA (1)

A te, mostruoso dio, – o che d’osceno

corpo tabente di marcite piaghe

l’anima inorridissi; o, in più sereno

volto, di vaghe

suppellettili e d’òr, ma di mistero

pur circonfuso, t’insinuassi in core; –

a te negli anni giovanil sincero

donai l’amore.

Or che in porto arrivai, già delle gravi

cure discarco, m’è dolce osservare

il travagliar di periglianti navi

nel gonfio mare.

Per li pensosi archi dei templi, a l’eco

di canti e d’armonia, il capo inchini

i circostanti, susurrando seco

carmi divini

il sacerdote; al meditar fervente

di quell’amor onde impazzîr le turbe,

e, inerme, i petti soggiogò e la mente

mutò dell’Urbe;

l’alma liquefaceasi, assorta in muta

di vani gaudi mistica pienezza,

e dei divini conversar’ perduta

nella dolcezza.

Com’edera c’al più vicin s’asside

albero e dell’amor che insiem li ammoglia

susurra con i rami, e al tronco arride

d’estrania foglia,

e dell’ospizio del sicuro amante

e dell’eccelso onor onde alta poggia

pur superbisce con l’erbose piante

di bassa foggia;

così dell’alma il fiore che sbocciava,

tenero ancora, al soffio dell’amore,

vergin d’ogni altro, lieto si donava

al rapitore.

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Ma tra i volumi che gli antichi vanti

del roman sangue, ancor che giacque al fato,

strappâr da morte negli eterni canti,

insospettato

Lucrezio m’attendea: del savio carme

l’amaro egli addolcia col molle riso

della natura, e, sol per ricrearme

l’occhio ivi affiso,

pria il cuor si piacque delle molli carte,

poi, ben che riluttante, anche la mente

travolta fu dall’arduo Ver, che l’arte

fea più suadente.

Come quando d’amor la fioritura

trascorsa, invan lamentano gli amanti

l’arido cuore, invan l’antica cura

pur simulanti;

poscia che vinse il nuovo sentimento,

in simil guisa dell’antico amore

tra le reliquie invan cercai il fomento

al dolce errore.

Spiacque l’inganno, del deluso amante

vero rancore al vuoto cuor s’apprese

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

  1. Frammento di un carme abbozzato quando il Ricci era ancora, quindicenne, nel seminario di Capua, e accennante alla crisi religiosa da lui sofferta.

(C) by Paolo Statuti    



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