L'esigenza di ridurre le emissioni da carbone nel mondo è reale e urgente. Il problema è: in che modo?
Al riguardo è interessante notare che nel corso del recente Power-Gen Asia (tenutosi a Kuala Lumpur lo scorso 10-12 settembre) ci si è innanzi tutto preoccupati di chiarire chi è che deve maggiormente impegnarsi: gli abitanti dei Paesi occidentali. I quali, pur essendo 1,2 miliardi, cioè circa il 17,8% della popolazione mondiale, sono responsabili di quasi il 40% di tutte le emissioni di gas serra, con una quantità pro-capite tripla rispetto alla media dei restanti 5,8 miliardi di abitanti.
Per il come c'è una generica concordanza sul fatto che, poiché la produzione di energia è responsabile per circa il 93% delle emissioni di CO2, e il carbone lo è in modo particolare (44% delle emissioni energetiche, vedi figura sotto), la cosa prioritaria da fare è tagliare le emissioni da carbone.
Ma di nuovo: come?
Impedendone l'uso laddove il carbone è la fonte di energia più economica, più disponibile e spesso unica? Imponendo ai Paesi più poveri l'adozione delle tecnologie e dei combustibili più costosi?
Si noti che queste ipotesi, che qui possono sembrare solo domande retoriche, di fatto costituiscono la filosofia che ha spinto la Banca mondiale e altre istituzioni internazionali a dichiarare di non voler più finanziare la costruzione di centrali termoelettriche a carbone nei Paesi in via di sviluppo.
È una strada percorribile? No, afferma Andrew Minchener, responsabile del Centro per il carbone pulito dell'Agenzia internazionale per l'energia (Iea)
Emissioni da carbone: puntare sulla maggiore efficienza
Secondo Minchener la logica per cui se non si finanziano gli impianti a carbone essi non verranno costruiti è una stupidaggine: "La realtà è che le centrali saranno costruite lo stesso, perché i Paesi in via di sviluppo hanno necessità di energia, e non avendo necessariamente opzioni alternative al carbone, l'unica cosa che cambia è che dovranno affrontare costi più alti. Così ridurranno le maggiori spese che possono aumentare l'efficienza o salvaguardare l'ambientale, con un risultato finale che non sarà di ridurre le emissioni da carbone, ma l'opposto".
Il punto - osserva Minchener - è che anche gli oppositori del carbone dovrebbero prendere atto che la società non sta tornando verso una economia preindustriale. E poiché non a caso il carbone è la principale fonte di elettricità al mondo (oltre che la principale fonte di energia in assoluto per un gran numero di Paesi emergenti e in via di sviluppo), la vera sfida da vincere è di aumentarne l'efficienza. Cioè: ottenere la stessa energia che oggi viene generata dal carbone utilizzandolo in modo più pulito e in minore quantità.
Secondo Minchener sono già disponibili tecnologie significativamente migliori di quelle comunemente adottate. Nel giro di pochi anni saranno anche disponibili a prezzi accettabili sistemi di cattura e sequestro geologico della CO2 (CCS - Carbon Capture and Storage). Il che, sottolinea l'esperto dell'Iea, consentirà di annoverare a pieno titolo il carbone (insieme al nucleare e alle rinnovabili) tra le fonti in grado di risolvere il cosiddetto trilemma energetico, cioè garantire contemporaneamente sicurezza energetica, equità energetica e sostenibilità ambientale.
L'opinione di Minchener è del resto condivisa da tutti i principali osservatori energetici internazionali, che sono concordi nel ritenere che la domanda di carbone continuerà inevitabilmente a crescere, al punto che nei prossimi 3-5 anni diventerà la prima fonte di energia al mondo, scalzando il petrolio dal primo posto.
Cose che interessano anche l'Italia
In tutto questo a noi sembra opportuna una riflessione sulla situazione dell'Italia, dove negli ultimi decenni si è consolidata una situazione energetica anomala rispetto al resto dei Paesi europei e occidentali in generale. Il punto è il percorso di deindustrializzazione che il Paese sta compiendo, in parte consapevolmente (dal punto di vista politico) e in parte inconsapevolmente (dal punto di vista dell'opinione pubblica).
È un discorso che non riguarda solo il carbone, ma in questo caso l'esempio è particolarmente calzante. Perché l'esigenza di mantenere un forte presidio anche sul carbone è dettata da motivi economici e di sicurezza energetica, cioè due argomenti difficili da comprendere e di scarso impatto per l'opinione pubblica, ma che alla lunga hanno il loro peso in termini di fatture da pagare, di competitività del Paese e di posti di lavoro persi.
Costruire una centrale a carbone in Italia non è come farlo nel Bangladesh. Dove l'attenzione per gli aspetti di efficienza e di impatto ambientale è pure presente, ma limitata da esigenze economiche e da priorità energetiche di altro tipo.
Da noi le norme vigenti (tra le più severe in assoluto) e la sensibilità per i timori sanitari (al limite dell'irrazionale) impongono di adottare le soluzioni più sofisticate e di risolvere questioni che nei Paesi in via di sviluppo non si sognano nemmeno.
Tutto questo presuppone attività di ricerca e di cooperazione tecnologica ad elevati livelli. Ed è per questo che la centrale Enel di Civitavecchia quando è stata inaugurata (2008) era la più efficiente e pulita al mondo. È per questo che la centrale di Brindisi sud è stata la prima nel 2010 (e, per quanto ne so, ancora l'unica al mondo) ad avere zero emissioni di fluidi liquidi; è per questo che per alcuni anni la ricerca italiana è stata tra le più avanzate nelle tecnologie di CCS.
Tutte competenze tecnologiche e industriali che rischiano di perdersi insieme a migliaia di posti di lavoro.
Anche per questo settore l'innovazione risiede ormai in Cina, dove è arrivata una decina di anni fa portata anche dalle industrie italiane. Così oggi l'impianto a carbone più efficiente al mondo non si trova più né in Italia né in Europa, ma presso Shanghai, dove un gruppo "ultrasupercritico" della centrale di Waigaoqiao (che, con i suoi 5.000 MW, è la più grande a carbone del mondo) ha raggiunto un'efficienza del 46%, un punto in più del record a suo tempo registrato a Torrevaldaliga nord. Per un confronto, si consideri che le migliori centrali europee messe in esercizio il decennio scorso hanno efficienze che raramente superano il 40%.
Ora il gruppo Enel è ancora impegnato (con altre industrie italiane ed europee) in programmi di ricerca avanzata che puntano a realizzare impianti con efficienze del 52%. Ma che interesse può avere a continuare a investire risorse e idee in progetti simili, se poi non può nemmeno pensare di costruire un solo impianto?
[ Valter Cirillo]