Emmanuelle Riva: “L’amore (per la recitazione) sopra ogni cosa”
E’ la vincitrice morale dell’ultima edizione degli Oscar. Anche se poi la sua statuetta è finita, proprio il giorno del suo compleanno, nelle mani della ben più giovane Jennifer Lawrence. Ma gli applausi più forti, al momento della proiezione delle sequenze di Amour, se li è aggiudicati lei, l’ottantaseienne francese Emmanuelle Riva, all’anagrafe Paulette Germaine. La più “matura” interprete mai candidata agli Oscar, e insieme colei che ha firmato la performance femminile più memorabile dell’anno: l’intensità dello sguardo, le smorfie di dolore sul volto, l’esposizione totale che ha donato al suo personaggio nel film di Haneke, raccontando con il corpo una storia di amore e malattia, restano nel cuore.
Cosa l’ha convinta ad accettare questo ruolo?
Avrei dovuto essere fuori di testa per rifiutare. O si è attori sempre, o non lo si è mai. E ad un personaggio così, su un argomento che e’ parte integrante della nostra vista e ci riguarda tutti, non si dice “no”. Inoltre ho sentito subito che ero in grado di farlo, non per vanità, ma per sensazioni molto intime. Sa, alla mia età non circolano molti ruoli interessanti: questo per me era un grande regalo.
Che indicazioni le dava Haneke?
Mi diceva “No, sei troppo dolce”. “No, qui troppo tenera”. Non ammetteva alcun sentimentalismo, non voleva vedere tremolii o lacrime, pretendeva una recitazione misurata e trattenuta. Mi ha concesso comunque grande libertà, e recitare tenendo tutto dentro è stata un’esperienza interessante.
Com’è stato il processo di “trasformazione”, a livello fisico e non solo?
Non tanto difficile dal punto di vista fisico, ma capisco che è il primo aspetto che colpisce lo spettatore. In realtà la mutazione fisica era un tutt’uno con quella del cuore. Certo, c’è voluto l’aiuto del trucco, che ha aiutato un processo già in corso. Vedermi da morta non è stato facile, mi ha colpito molto e in generale sapevo che raccontare il degenerare di una malattia implicasse inevitabili trasformazioni fisiche. Per i gesti, imiti meccanicamente quello che hai visto fare in ospedale, o i movimenti indicati dal regista. Però tanti attori sostengono l’importanza della trasformazione fisica, io invece mi preoccupo su ciò che succede all’interno, per cercare di essere più vicina possibile alla verità.
Ha aneddoti da raccontarci al riguardo?
A volte mi dimenticavo di avere il braccio funzionante: a fine riprese finivo per non muoverlo più. Per ottenere l’effetto della paresi cercavano protesi adeguate per me, alla fine abbiamo scelto la naturalezza del batuffolo di ovatta. E’ stato un processo di metamorfosi che per un altro film si definirebbe divertente, qui ci limitiamo a dire “interessante”. Addirittura non tornavo a casa a fine giornata, vivevo in un camerino grandissimo per non stancarmi, per mantenere concentrata l’intensità della lavorazione e risparmiare fatiche inutili dovute a stress, traffico e inquinamento.
La sua scena preferita nel film?
L’abbraccio finale tra i due protagonisti. Un gesto che è un capolavoro. Sembra che lì la sofferenza della donna che interpreto si allenti, tutto si calma all’improvviso. Lei desidera morire, non mi sento di giudicare la scelta dell’uomo che la ama, che si fa carico della sua malattia e, quando la sofferenza fisica e spirituale le diviene insostenibile agisce per lei. E senza sapere né quando, né come: sapeva solo che toccava a lui farlo. Tante coppie affrontano questa stessa situazione che non mi sento di commentare. Ogni caso è a sè, forse la scelta del film, relativa alla vicenda raccontata nel film, è l’unica che andava presa. Vede, lo dice già il titolo, per me straordinario: non è né “Un amore”, né “L’amore”. Ma solo “Amore”. Perché racconta un gesto di enorme amore, appunto.
Una domanda personale: com’è la vita a 86 anni?
Ogni giorno diversa. Mantengo uno sguardo aperto sul mondo, e resto colpita dalla piega che sta prendendo il pianeta, che vedo cambiato in peggio, sempre più prossimo alla rovina: ormai la violenza ci arriva in faccia e ne restiamo tutti colpiti.
Il cinema può salvarci?
Il cinema racconta la vita, e diventa più cupo. La salvezza è la scrittura: io ogni tanto scrivo poesie, per non guardare le onde di sangue avanzano e ridipingono il volto del mondo.
di Claudia Catalli