Il poema “Tumuli”, tradotto da Alberto Di Paola e Kateřina Zoufalová, è pubblicato e si legge sul blog LA PRESENZA DI ERATO (qui)
Leggo questo poema con rispetto. Non può mancare verso un perseguitato condannato all’ergastolo durante il periodo stalinista e poi scarcerato «perché “nell’attività dell’imputato non c’era stato nulla di criminale”», come si dice nella nota di presentazione. Non posso però tacere la mia delusione. Che nasce dal modo come l’autore affronta il tema del rapporto tra la poesia e la storia, i cui eventi l’hanno investito duramente e personalmente in quel Novecento di ferro e in uno di quei Paesi dell’Est (la Boemia) che ha dovuto sopportare due tragedie: prima quella del dominio nazista e poi di quello stalinista. Mi si potrebbe obiettare: ma parla da poeta. Replicherei: Proprio per questo. Essendo per me la parola che i poeti – direttamente o indirettamente – pronunciano sulla storia degna di considerazione quanto quella dei politici, degli storici, degli economisti o dei filosofi.
Certo qui c’è un poeta, ma un poeta che a mio parere non esce da una intimizzazione della sua esperienza dolorosa («ho succhiato ogni cosa dalla tempesta/ in quelle tristi serate, quando all’imbrunire/ una gelida e malinconica nebbia, come un velo,/ ammantava la città»); e che ha una visione religiosa che lo porta ad annebbiare la violenza della storia in uno spiritualismo melanconico. Due tratti che davvero sono da discutere.
Il tono del poema è meditativo e pacato. È una sorta di colloquio amaro e disincantato con un amico (un alter ego). Lo scrivente presenta se stesso giovane più affascinato dalla religione («brancolavo ingenuamente nell’Eterno, affogavo/ in ciò che mai non muta e perdura,/ non ero capace di accettare la ragazza nella leggerissima/seta del peccato») e solo man mano si fa sedurre dalla vita. Ora ricorda quella fascinosa giovinezza: sventata, bohémienne, volta al culto (parareligioso) della poesia: «quando la rosa e i libri erano per noi una vertigine;/forgiavamo severamente un verso dopo l’altro,/ li raccoglievamo dal sogno e dalle profondità della musica»; «quando scrivevamo lettere artificiose:»; quando l’abbandono al sogno era totale («il mio sognare era senza freni»). Vissuta, dunque, in una sorta di “paradiso poetico”, inconsapevole della storia, che nel frattempo comunque c’era assieme ai suoi orrori; e ostile alla «rigida scienza». Di quel periodo, di quella sventatezza oggi si vergogna: «ti scrivevo arroganti, appassionati panegirici,/così sapienti che oggi mi vergogno». Perché – pare di capire – mancava ogni preoccupazione etica: «non conoscevamo la misura nel male e nel bene». Si tratta, dunque, di una giovinezza romantica, votata alla bellezza, all’amore, alla letteratura come mondo in sé concluso. (Lo confermano le preziose citazioni da Hofmansthal, da Catullo). O perché – più duro da accettare – tutto quella poesia s’è dimostrata illusoria. La storia (con la minuscola!) l’ha schiacciata, l’ha fatta svanire. E lo stesso poema che Kostohryz ha poi scritto, col suo tono prevalentemente rievocativo e abbastanza prosastico, sembra segnalare un addio al sublime poetico, sembra voler essere al massimo poesia/prosa: adulta, matura, uscita finalmente dall’incoscienza e dal sogno:
Amico, dove sono queste bellezze, i profumi?
Qui ci sono soltanto nebulosi tumuli e amori…
ma dove sono quegli amori ch’erano così belli
C’è, anzi, nel poema una sorta di avvertimento, di messa in guardia ora nei confronti della poesia. Ma – fondamentale per me – non in nome della realtà finalmente emersa, con la quale fare i conti che prima non si erano fatti, ma in nome della ribadita superiorità dello spirito. E qui s’inserisce il tema cristiano/cattolico della colpa. È per il suo sogno d’assoluto che il poeta è stato punito? Così pare:
Hai amato Neruda, Zeyer, Hálek,
mi piaceva Březina, Erben, Mácha,
non mi piaceva nessuno e tutti,
come nella vita bevevo ogni cosa: dalle torbide
pozze alle acque cristalline e limpide,
ai fuochi, e per questo sono stato punito.
No, bisognerebbe dirgli. Non è una colpa scrivere o amare la poesia (o amare in genere…). È la storia che è andata, ancora una volta e inaspettatamente, contro la poesia e la sua sottintesa o esplicita, ma sempre troppo inerme, «promessa di felicità». Se errore (non colpa…) c’è stato in giovinezza, è dovuto al fatto che il poeta allora non voleva o non seppe tener presente la storia, che già c’era, che già lavorava (lui e gli altri); e già era contro non solo la poesia, ma contro i bisogni stessi più elemntari di una parte grande dell’umanità. (Come succede pure oggi). Questa umanità – ecco un altra critica che mi sento di fare – in questo poema a stento si sente. S’affaccia – ombra tra ombre – in una sola immagine: «miravo il misterioso fasto della città,/ il via vai delle genti che vagabondavano tutt’intorno/ e il lavoro di quelli che, come da un lontano crepuscolo,/ erano qui presenti con l’opera delle proprie mani,/ coi battiti dei cuori e con l’oscura sorte».
Non è che una più precisa consapevolezza dell storia non avrebbe lo stesso schiacciato la poesia. E’ capitato tante volte. Eppure una poesia più consapevole della storia è anche più resistente alle pressioni della storia e alle sue bastonate. Non rischia di spezzarsi subito la schiena. Non rischia autodafè come questa di Kostohryz. (Penso a Dante, a Manzoni, a Brecht, a Fortini e, pur nella sua assolutezza lirica, a quella di Mandel’štam).
La debolezza poetica di Kostohryz sta per me nel fatto che, anche quando la bastonata tremenda gli è arrivata, il poeta sembra lo stesso volersi rifugiare ancora nella rievocazione nostalgica in un tempo “pre-storico”, invece di fare poeticamente (non vorrei essere equivocato, non si tratta di trasformarsi o travestirsi da politici…) i conti con l’orrore storia, con il mostro storia. Kostohryz è come se non avsse mai voluto prenderlo per le corna.
Da qui un eccesso di ricordi personali da letterato. Nel poema vengono convocati gli autori a lui cari: Apollinaire, Verlaine, Rimbaud, Max Jacob, Smetana, Valery, Dante, Petrarca, Virgilio. Come se dovesse o potesse adagiarsi ancora accanto a loro. E, infatti, non riesco a credere a quel suo: « Sei futile, Poesia! E come ti vedo vuota/con tutte le tue parole!», tante ancora ne spende in omaggio alla poesia e ai poeti. E tanto vaghi e appena sfiorati sono i riferimenti a eventi e a vari personaggi non poeti a lui coevi (Sacco e Vanzetti, Anita Berber, ecc.). Prevale la rievocazione. Domina un rimpianto oleografico di figure che non ci sono più: «Dov’è il signor Razím che giù all’angolo…»; «E dove sono finite le chimere che dormivano…»; «Dov’è quel danzatore, un fachiro indiano…»). Alla Villon, ma senza il vigore e l’icasticità del poeta francese. Tutto il suo poema è all’insegna del Tempo che fugge; e di un riconoscimento – forse rassegnato e onesto – della propria propensione al sentimento («Cuore, ancora non puoi rinunciare?»). Il contrasto tra passato e presente è, però, tutto psicologico: «una volta forse c’era una speranza, oggi c’è solo angoscia». Solo in un punto la storia pare parlargli direttamente. Ma per indurlo a una debole e illusoria identificazione con una figura aristocratica del passato, quella di Maria Antonietta, la regina dei Francesi condotta al patibolo dopo lo scoppio della rivoluzione. Resta prevalente anche la visione dei poeti (Chenier , Garcia Lorca) come “esseri speciali” rispetto agli altri:
Nessuno, quella volta, poteva spaventare
con una sentenza capitale un poeta! E nemmeno una donna!
Una volta… era così. Soltanto un barbaro avrebbe osato
attaccare una donna in una guerra barbara!
Oppure c’è l’abbandono a un sarcasmo ingenuo («Ma che nobiltà la scure, la corda/ e la pallottola rispetto al gas!»), mentre un silenzio reticente (forse obbligato a causa della censura poliziesca?) cala sull’« allucinante era stalinista» in cui egli ha vissuto e che ha subito. E , anche quando tende all’invettiva, torna il discorso sulla «colpa». Oppure si ha l’equiparazione moralistica dei nemici a «diavoli» e l’invocazione a Dio di una vendetta («Tu, Pietoso Signore,/ meglio che li strangoli, che lasciarli a torturarsi/ con la loro colpa paterna e con l’opera/ o a macchiarsi di sangue»). Più convincenti sno i punti di inerme sincerità («Che secolo di scellerata infamia!/ Mi vergogno terribilmente, e ho tanto paura.»).