Ci può tracciare quello che, secondo lei, è il profilo di Enrico De Pedis?
“Un grande benefattore dei poveri della basilica di Sant’Apollinare, che ha dato il suo aiuto concreto in tante iniziative di bene di carattere religioso e sociale e che ha fornito particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi alla loro formazione cristiana e umana”. Che c’è? Non è esattamente questo il profilo che vi aspettavate?
Eppure è quanto ha scritto di Enrico “Renatino” De Pedis il Vicario generale della diocesi di Roma Ugo Poletti il 10 marzo 1990, nel rilasciare il nulla osta alla sua sepoltura nella basilica, violando in suo onore una norma del diritto canonico: “i cadaveri non siano seppelliti in chiesa, se non si tratti del Romano Pontefice o di Cardinali o di Vescovi“
Renatino è finito morto ammazzato il 2 febbraio 1990, mentre guidava – contromano – il suo scooter Honda Vision 50 in via del Pellegrino, verso Campo de’ Fiori. Il primo colpo di calibro 38 glielo sparano da una moto in corsa, prendendolo al collo. La seconda pallottola gli buca la spalla. Aveva cominciato con gli scippi, da ragazzo, a Testaccio. A soli trent’anni era nel novero dei personaggi più influenti della criminalità e considerato uno dei capi della cosiddetta Banda della Magliana.
Ma non si era limitato a un glorioso sperpero dei suoi affari tra belle donne e champagne. Lui investiva e promuoveva attività di sicura remunerazione: bische clandestine, totonero, spaccio di droga, compravendite immobiliari, acquisto di locali alla moda, boutique, ristoranti. Non solo: i soldi li utilizzava anche per costruirsi amicizie, relazioni, legami ai più alti livelli, in modo da garantirsi una duratura impunità e, forse, per passare a una vita nuova, lasciandosi alle spalle una storia violenta, difficile.
In qualche strano modo il suo personaggio mi fa pensare al Barry Lyndon di Kubrick, al suo tentativo fallito di accedere – con ogni mezzo lecito e illecito – a un mondo di privilegio, a uno status per cui il potere conquistato è tale da cancellare ogni traccia, ogni oscura origine. Napoleone diceva che la vendetta non ha preveggenza: molti componenti della banda finirono per scannarsi a vicenda; Renatino invece era riuscito a gestire e a domare quella furia, puntando al futuro. Alla fine, tuttavia, anche di lui non è rimasto che un sepolcro. Per quanto prestigioso, ci è finito dentro che non aveva compiuto ancora trentasei anni.
Secondo lei, Enrico De Pedis, è una figura estranea alla banda della Magliana?
Mi sta chiedendo se Gesù è morto di freddo? In effetti non mi pare che qualche sentenza lo indichi come un boss. Quando è morto aveva un regolare passaporto e, appunto, dei cardinali pronti a giurare che fosse un benefattore. Per quello che riguarda il mio lavoro di giornalista e di scrittore, non sono certo io a rilasciare patenti né mi interessa comportarmi da surrogato investigativo.
Il punto è decidere se i fatti relativi alla criminalità romana di quegli anni possano ormai essere indagati da una prospettiva storica e non attraverso un’inconcludente dinamica da scimmiottamento di un processo. E in questo modo di riscontri se ne trovano molti. Non tanto e non solo per giudicare la vita e la morte di qualcuno, ma perché in ballo ci sono numerosi importanti passaggi della nostra storia recente e della nostra vita civile. Ed è importante sapere.
La “Banda della Magliana” non è un’associazione, un partito, una loggia e nemmeno un’organizzazione da ascrivere alle tradizioni mafiose che, da Palermo a Shangai, perpetrano riti di affiliazione e rispettano rigidi gradi gerarchici. Non verrà fuori una lista di affiliati vidimata dalla questura. E allora cosa vogliamo fare? Non ne parliamo più?
Marina Angelo
Yari Selvetella, 35 anni. Ha pubblicato i saggi Roma Criminale (scritto con Cristiano Armati) e Banditi, criminali e fuorilegge di Roma, entrambi editi da Newton Compton, oltre ai romanzi Male e Peggio (Avagliano) e Uccidere ancora (Newton Compton).per la foto, si ringrazia L.Nostri