Lo studioso francesce Roland Barthes la cercò tra le foto che ritraevano sua madre, quando lei morì, fino ad arrivare a quella in cui lei, proprio sua madre, letteralmente, c’era. E a Sciascia sembrò di coglierla nella frase riportata ne Il libro degli amici di Hugo von Hoffmannstahl, arrivandoci attraverso i ritratti fotografici che Pedriali fece a Pasolini poco tempo prima che l’intellettuale bolognese “morisse”.
«Un uomo che muore a trentacinque anni è in ciascun punto della sua vita un uomo che morrà a trentacinque anni. Questo è ciò che Goethe chiamava l’entelechia»: frase attribuita a un tale Moritz Heimann nel volumetto di Hoffmannstahl. Ed è questa idea di entelechia, che Barthes attraverso il suo reflusso memoriale, così come lo stesso Sciascia, e Luigi Pirandello, e grandi fotografi come Diane Arbus, Ferdinando Scianna, Robert Mapplethorpe, August Sander, colsero, e colgono ancora, nelle loro rappresentazioni. Lo spirito della diversità, della festa, dell’inventario sociale, già tutto compreso in un momento congelato, eternato.
Di questi tempi siamo circondati da immagini e didascalie di immagini. Ed entrambe le categorie aspirano a farci individuare rappresentazioni che siano valide una volta per tutte, a essere identificate con l’essenza di quella cosa rappresentata: un elicottero che si allontana, una cena tra gente “qualunque” in festa a tarda ora in una pizzeria, una grande aula vuota. Questo è il nostro nuovo modo di trattare l’entelechia, non già, e non più, quello di cercarla, ma quello di corromperla in maniera sistematica per costruire nuove narrazioni.
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