Signor Presidente della Repubblica, non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo tortora possono accadere a chiunque. E questo ni fa paura.
Lei è il massimo esponente dell’organo supremo dei Magistrati: e deve sapere. Ho un sincero e profondo rispetto per i giudici che, come i giornalisti, hanno pagato, e pagano, un duro conto con il crimine. Conoscevo Alessandrini, e voglio bene ai figli del dott. Galli. Credo nell’onestà e nel scrificio di quelli che lottano, a Napoli e ovunque, contro la camorra e la mafia.
Ma ci sono aspetti del “blitz” contro i cutoliani che lasciano perplessi: dalla data, una settimana o poco prima delle elezioni, agli sviluppi. Dalle conferenze-stampa trionfalistiche, alla caccia all’uomo con cineprese al seguito, dal segreto istruttorio largamente violato, al numero degli arrestati e dei dimessi.
Su 350, se le cronache sono esatte, 200 sono tornati fuori: ma, hanno detto gli inquirenti, e mi scuso per l’odioso e usatissimo termine che suscita il ricordo di antiche procedure, molti rientreranno in cella. Come dire, che si può sbagliare fino a tre volte: arresto, scarcerazione, altra cattura. Ma qual è la buona?
Tortora è denunciato da un tale Pandico, che fa il suo nome dopo tre interrogatori: guarda caso, un personaggio così popolare non gli viene in mente subito. Le conferme vengono da un certo Barra, conosciuto nell’ambiente come “O’animale”: è lui che parla dello “sgarro”, e che fa andar dentro il sindaco D’Antuono, rilasciato poi al trentanovesimo giorno di detenzione per mancanza di indizi. È sempre lui che riferisce della visita a Cutolo dei Gava e dei servizi segreti, per tirare fuori dagli impicci l’amico Cirillo, ma di questa impresa non si discute.
Gli avvocati che difendono il presetatore non hanno potuto leggere neppure i verbali degli interrogatori del loro assistito; ci sono periodici che hanno pubblicato i testi delle deposizioni dei due camorristi accusati. Chi glieli ha dati?
Ogni mattina, la stampa ha ricevuto la sua dose di indiscrezioni: Tortora fu iniziato col taglio di una vena, tortora ha spacciato droga per 80 milioni e non ha consegnato l’incasso, Tortora ha riciclato denaro sporco, tortora era amico di Turatello: smentisce la madre del bandito, smentisce ed è a disposizione, il suo braccio destro. Nessun segno sui polsi. Ma ci sarebbe la conferma di una “contessa”, che non può testimoniare perché, guarda caso, è morta.
C’è la prova che dovrebbe mettere in difficoltà Tortora: una lettera di Barbaro Domenico per dei centrini andati perduti alla Rai. Esiste un carteggio tenuto dall’ufficio legale della Tv di Stato, ma non significa nulla. Conta, invece, la parola di due assassini.
Poi ci sarebbe l’altro seguace di Cutolo, che messo in libertà avrebbe dovuto fra fuori il compare Tortora che ha tradito, tanto è vero che ha scritto il nome dell’autore di “Portobello” nella sua agenda che è come se Oswald avesse segnato sul calendario: «Mercoledì: sparare a Kennedy».
È pensabile che i misteriosi tipi che stanno sconvolgendo la nostra vita, per far fuori uno, o per far saltare un automobile, abbiano bisogno di aspettare che un detenuto torni in circolazione? Si ha l’impressione che, dopo aver messo le manette a Tortora, stiano cercando le ragioni del provvedimento.
Ma ecco che arriva il colpo sensazionale: col caldo che imperversa, il dottor Di Persia corre a Milano, perché ha trovato finalmente chi può schiacciare quel finto galantuomo di Tortora.
C’è uno che lo ha visto, nientemeno, consegnare della polvere bianca in cambio di una mazzetta di banconote, a un terzetto di farabutti, ed ha assistito alla scena in compagnia della sua gentile signora.
Il dottor Di Persia non si informa sui precedenti del «noto pittore», che si chiama Giuseppe Margutti, ed è tanto riservato, odia tanto la pubblicità, e dà dello stesso fatto versioni differenti: una ad un redattore di Stop, l’altra al Sostituto Procuratore.
Bene, l’artista, che si è fatto denunciare dal Louvre per una mostra delle sue opere non richiesta, che inventa, per andare con una donna, un rapimento, che mette in circolazione francobolli con la sua faccia, che dichiara guerra agli Usa che lo hanno buttato fuori, che immagina un sequestro che non c’è mai stato, che denuncia i critici che non lo capiscono, che si fa incatenare nella Galleria di Milano, che chiama i fotografi per farsi ammirare mentre imbianca i uri sudici dell’asilo di sua figlia è il teste chiave.
I giudici di Napoli spiegano poi agli avvocati Dall’Ora, Della Valle e Coppola, tutori di Tortora, che le chiacchiere di Margutti costituiscono «un importante risultato sul piano probatorio».
Signor Presidente, chi risarcirà Tortora di queste calunnie? Col pappagallo, dovra forse andare a distribuire i pianeti della fortuna? Del resto, visto come va la giustizia, a chi si dovrebbe affidare?
Enzo Biagi, la Repubblica, giovedì 4 agosto 1983