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Episodio 3 – Solo sette e… migliaia

Creato il 26 aprile 2012 da Fant @fantasyitaliano

 

La capsula scendeva nelle nuvole cenerognole: un’infezione di pece nera, di bitume e di ruggine si estendeva là sotto per chilometri nel deserto. Era un dedalo di cisterne e baracche, condutture, ciminiere e silo, di vasche ribollenti d’acque nere e catrame, di miglia di lamiere lucidate dalle burrasche. L’uovo sorvolava le tettoie di eternit sforacchiate dagli ossidi, dagli scrosci di piogge acide; gli accumuli di rottami, di minerale e di ghiaia e ragnatele di rotaie che affondavano nella sabbia. Torrette, montacarichi, tralicci sciancati pencolavano sul ciglio di mostruose cavità, trabiccoli discensori si calavano nelle tenebre.
«Ciò che ad Ammit chiamano una città», storse il naso Srivas, si sporgeva a guardare giù, «la più grande, e però non ha nome.»
«Possibile che questo mondo sia nient’altro che una miniera?»
I fanti e Matsumoto guardavano schifati quel golfo malsano di metalli e di gas, i ruderi di cemento, gli scavalchi di travi, i laghi artificiali di bitume e sozzure. Eleanor si sforzava di riconoscere nella bruttura, in quello stupro d’inquinanti al paesaggio, i linguaggi e l’immaginario di culture d’origine:
«Dickens, Marx, rivoluzione industriale», bisbigliava di getto all’orecchio di Farinelli fra i riccioli di stagno della zazzera scolpita, «la frontiera americana del secolo XIX. Petrolio, pionieri. Futurismo. Antica architettura sovietica. Mito della fabbrica, dell’operaio. Tragedie nelle miniere terrestri. Letteratura postatomica: Miller, Dick, Bonvi, Okamura.»
«Ma anche Piranesi», suggeriva l’automa, «le carceri d’invenzione.»
Su un’altura sabbiosa nell’oceano di metallo brillava il radiofaro della scialuppa presidenziale.
«Ci siamo», Deepika incupì, «ma guardate, signorina Cole.»
La folla dei coloni ingobbiti dalle bombole, anonimi, impacciati nelle tute grigio-cenere, arrancava a migliaia, sul crinale dell’altopiano, tutto attorno alla lucente navetta. Gli Ammit si arrampicavano sugli alettoni e sull’elio-vele, si aggrappavano ai pannelli, bussavano agli oblò; lamentavano disperati, in un coro di altoparlanti, la sorte del presidente e supplicavano esequie.
«Cargo – cult», aggiunse Farinelli. Eleanor annuì: quel mondo, più scendevano, più le sembrava primitivo e ostile; e la mole colorata dei moduli commerce-forming, che piovevano nei deserti ad attirare i consumatori, un’aggiunta improbabile allo skyline extraterrestre.
La capsula planava sull’uggioso brulichio, sugli ammassati sulle ali della scialuppa; Eleanor scrutava nella calca incolore:
«Non scorgo nessuno del seguito del presidente. Sono riusciti a riparare nella navetta. Non li lasciano decollare, ci impediscono di atterrare.»
«Sperate che sia così, che non li abbiano già linciati. Caliamoci in mezzo», azzardò Matsumoto.
«È probabile ci siano donne e bambini in quei fagotti di nylon grigio: no, direttore, li schiacceremmo.»
«Si scansino, se sono svegli», Chaudhary iniettò. L’idrogeno rovente tempestò sull’altipiano, il fischio dei motori soverchiò quel tumulto. La capsula si abbassava in verticale, spegneva il reattore, il treppiede posò. Gli Ammit si ritiravano fra le cisterne e baracche, fuggivano dai tre zoccoli che affondavano nella sabbia.
Eleanor vedeva, dietro le fiamme che si spegnevano, quei loro caschi e respiratori che li spiavano dagli steccati, dal ciglio dei cassonetti, in agguato nei ripostigli, nei grovigli di tubature e da barriere di latte e taniche. L’altura all’improvviso era quieta, deserta: l’uovo e la scialuppa si fronteggiavano sotto i soli nel silenzio polveroso cento metri distanti.
Matsumoto aprì un canale con la navetta presidenziale:
«Chiedo il permesso di salire a bordo.»
«Permesso accordato!», trasecolarono molte voci flebili di angoscia all’altro capo del trasmittente.
Chaudhary sfoderava termosciabola e pistola, saltò dalla cabina alla testa dei suoi fanti: il Dettingen di J.F. Haendel le tuonava dal tricasco; «muoversi, fuori!», spalancò il portellone. Goel, Sharma, Srivas e Narayan uscirono dalla capsula in ordine di battaglia.
Farinelli usciva avanti a Eleanor, Matsumoto la trattenne sulla scaletta. La guardò torvo, allusivo per qualche istante e aspettò che fossero soli nell’abitacolo:
«Spiegatemi, signorina, non ha senso questa bravata: perché tanta premura di scendere? Abbiamo visto il presidente morire, ma se anche così non fosse, si sperasse soccorrerlo, voi non siete chirurgo, non potreste far nulla. Perché non attendere al fondaco, e gestire l’emergenza dall’orbita?»
Lei lo scansò, «muovetevi, direttore.»
La squadra avanzava allo scoperto dalla capsula alla navetta presidenziale, dai rifugi i coloni si sporgevano alla spicciolata; Eleanor dai loro cenni intuiva che licontavano: e che scambiavano rassicurati, paurosi grugniti sul fatto che loro fossero soltanto sette, armati, equipaggiati, ma gli Ammit… migliaia.
I moschetti dei soldati, la sciabola dell’ufficiale, l’rpg del fante scelto, le sue pistole e di Matsumoto si specchiavano nel vetro opaco di quelle maschere desuete e mute; il trionfale Te Deum, che suonava dal tricasco, scemava nel mugghio delle folate desertiche.
Il suolo era cosparso di lattine e di nastri, di fiocchi, di tetrapak, di gagliardetti e di stendardi laceri; le impronte nella sabbia di una recente colluttazione. Eleanor pestava cartestracce e plexiglas, plastiche, cocci, chiazze brune di sangue secco.
A passo a passo, fra i due portelli di nave, gli Ammit sgusciavano dai loro sordidi nascondigli, tornavano ad ammassarsi sull’arido altipiano. La torma lamentosa si accalcava ad accerchiarli.
Chaudhary allungò la falcata: la folla fremette, scattò più vicina; Sharma, Goel e Narayan si strinsero a spalla a spalla, coprivano Eleanor. Srivas mulinava la canna nera del lanciamissili, gli esagitati si stringevano su Matsumoto, che chiudeva la fila a pistola puntata.
La rampa d’onore della scialuppa presidenziale si abbassava lentamente con un gemito di pistoni, l’aria fredda degli interni svaporava nell’afa tossica. Un roboto valletto si affacciava dal portellone, trasmetteva a Farinelli un sonetto di benvenuto.
Eleanor vedeva, affacciati agli oblò dei ponti, i dignitari, l’equipaggio umano che spiava nervoso quell’imboscata sulla spianata: le parrucche e collarine e ventagli e i volti pallidi di tensione e di cipria.
Quando Deepika fu a due metri dalla scialuppa la rampa si spalancò, la folla ruggì in avanti. L’ufficiale saltò dentro con un cenno ai soldati, che spinsero nel vano Eleanor e Matsumoto.
Farinelli assistette l’altro automa a sigillare il portellone il più veloce possibile.
Fuori si sentiva lo strepito di quelli che daccapo riassaltavano lo scafo; e il tonfo cupo, rovinoso dei corpi sull’acciaio, le terrecotte e i boccaporti blindati. Quel coro lugubre di angoscia e curiosità.
La squadra si accasciava, con un salmo di grazie, sui sedili imbottiti dell’anticamera pressurizzata; lasciava le armi, i tricaschi, le tute. Matsumoto affondava la faccia, gonfia, paonazza di sudore e spavento, nel fazzoletto color pervinca profumato al mughetto.
«Non ci avrebbero fatto nulla», ripeteva Chaudhary, scrollava i sottoposti, «perché tanta strizza?»
«In alcune società primitive», Farinelli spiegò tetro, attingeva a un file audio, «l’entusiasmo, la gratitudine verso figure salvifiche sfocia in un’ebbrezza violenta e antropofaga. Gli individui che si è lieti di vedere, poiché portatori di doni magici, di virtù taumaturgiche, sono smembrati e divorati da vivi. È attestato nella civilissima Europa fino a tutto il XVIII secolo.»
«Volevate verificare se è un’usanza anche ad Ammit?», Eleanor deglutì.
Srivas, Sharma, Goel e Narayan si fecero inorriditi un segno di devozione.
Liberi dal goretex, gli zaini e gli scafandri, e attraversati i disimpegni pressurizzati, Eleanor, Farinelli, Matsumoto e Deepika salivano alla plancia a incontrare l’equipaggio.


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