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Erdogan raccoglie i frutti della sua follia

Creato il 13 giugno 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Recep_Tayyip_Erdogandi Michele Marsonet. Nel grande disastro irakeno che rivela il completo fallimento della politica estera americana e occidentale in genere, vale la pena di rammentare anche il prezzo che la Turchia sta pagando grazie alla strategia folle di Recep Erdogan.
Partito con l’intento di restituire al suo Paese un ruolo di grande potenza regionale (che d’altro canto in parte già aveva), il premier turco si è poi messo a coltivare il sogno di rifondare un’entità che assomigliasse al vecchio impero ottomano. Naturalmente i confini non possono essere quelli di un tempo così lontano, e allora la spinta espansiva si è rivolta alle repubbliche turcofone ex sovietiche del Caucaso e dell’Asia centrale come Azerbaijan e Turkmenistan, con una politica di penetrazione culturale assai intensa. In Azerbaijan, per esempio, il russo viene progressivamente sostituito dall’azero che è una lingua molto simile al turco.

E fin qui siamo nei limiti della normalità, per quanto un po’ tirata per i capelli. Ma Erdogan non si è accontentato di questo. Ha pure preteso di giocare un ruolo di primo piano nella crisi siriana appoggiando concretamente i ribelli anti-Assad, e non si è fermato neppure quando si capiva che fondamentalisti e qaedisti avevano ormai preso il sopravvento nel conflitto che tuttora insanguina il Paese confinante.

Tutto insomma andava bene pur di abbattere il governo di Damasco, e i rifornimenti ai ribelli che passano attraverso il confine tra Siria e Turchia sono diventati col tempo sempre più copiosi. La gravissima tensione interna non ha affatto frenato Erdogan, facilitato dal fatto che l’esercito, per decenni custode degli ideali laici di Ataturk, è stato ridotto all’impotenza e obbedisce adesso al nuovo padrone.

Ad Ankara hanno però sottovalutato alcuni eventi recenti, e in particolare la formazione di un’entità come l’Isis – che potrebbe presto diventare uno Stato – di ispirazione qaedista. I rapporti con l’Isis sono stati finora piuttosto buoni ma, si sa, i fondamentalisti non agiscono su basi razionali. Dopo aver conquistato il Nord irakeno e una fetta consistente della Siria, i miliziani dell’Isis, arrivati a Mossul, hanno assaltato il consolato turco sequestrando il console stesso e un numero imprecisato di impiegati della sede diplomatica.

Erdogan e il suo ministro degli esteri ne hanno subito preteso la liberazione immediata, minacciando un’azione militare in caso contrario. Difficile tuttavia portarla a termine in una zona che i fondamentalisti (tra l’altro sunniti proprio come i turchi) dominano interamente. L’esercito regolare iraqeno addestrato dagli USA si è squagliato come neve al sole, abbandonando sulle strade armi e mezzi militari in gran numero. Gli americani hanno promesso un invio massiccio di droni, ma non si vede davvero come possano risultare utili senza avere sul terreno truppe efficienti che contrastino l’avanzata delle forze dell’Isis.
Giova pure rammentare che l’unica zona sicura nel settentrione irakeno è il Kurdistan, dove i celebri peshmerga hanno finora impedito qualsiasi infiltrazione. Pare, anzi, che ora si stiano muovendo sostituendosi all’esercito regolare, e che siano pure riusciti a bloccare in certi punti l’avanzata dei qaedisti.

A nessuno sfugge la stranezza della situazione. La guerriglia curda è stata per decenni una vera e propria spina nel fianco del governo di Ankara e, se continua così, andrà a finire che i turchi dovranno affidarsi proprio ai curdi irakeni per salvare i loro connazionali. Un’indubbia lezione per Erdogan, anche se, conoscendo il personaggio, è lecito dubitare che sappia trarne le dovute conseguenze.

Featured image, Erdogan.


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