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Eric Clapton – Me And Mr Johnson (2004)

Creato il 08 dicembre 2010 da The Book Of Saturday

Artista/Gruppo: Eric Clapton
Titolo: Me And Mr Johnson
Anno: 2004
Etichetta: Reprise

Eric Clapton – Me And Mr Johnson (2004)

Non basterebbero dieci articoli per spiegare quello che Robert Johnson ha dato alla musica moderna, ha ispirato innumerevoli gruppi rock, tutta un’ondata di musicisti, inglesi e americani, che sul solco da lui tracciato hanno fatto sì che oggi si possa parlare in termini di rock. Eric Clapton è stato tra i primi della seconda schiera successiva ai vari Buddy Guy, Howlin’ Wolf, T-Bone Walker, ecc. Ai tempi dei Cream lo ha spesso citato, ancor di più vi si è cimentato quando, come nel caso di Crossroads, ha fornito lui stesso, assieme a Jack Bruce e Ginger Baker, uno spaccato riproposto in chiave decisamente più moderna e accattivante. E se molti di questi musicisti sono diventati milionari è anche grazie alla via tracciata da questo avo nero del Delta.

Ora, spiegare le sensazioni che si provano quando nel lettore si incanala il cd Me and Mr Johnson di Eric Clapton, non è cosa da poco. Innanzitutto per il fatto che ogni qualvolta mi trovo di fronte a una cover assumo molteplici punti di vista, non tutti accondiscendenti. Secondo perché, pur apprezzando il progetto, nel momento stesso in cui un artista, seppur affermato e blasonato come Clapton, e che stimo e adoro, presenta un prodotto non concepito direttamente dalla sua testa, mi aspetto anche un plus che ne giustifichi le motivazioni.

Con questo disco Clapton opera due tagli, il primo che ci riporta indietro di 70 anni, ai tempi in cui Johnson tornava dal suo “anno X” passato nell’anonimato, dopo il «patto col diavolo», quell’anno 1930 che segnò la svolta epocale della musica popolare del Novecento. Il secondo taglio, più breve e recente, ma non meno affascinante, ci riporta indietro di 40 anni, quando la new wave britannica iniziava a divertirsi con i brani blues dei suoi padri e la folla impazziva per quelle nuove sonorità fino ad allora ignorate.

Clapton canta Johnson nello yodel tipico dei canti degli Appalachi, lo canta con quegli “mmm” e “uuu” propri di Mr. Robert, e che dire, lo fa in modo encomiabilmente fedele all’originale, con qualche caduta comprensibile e dettata dall’emozione e dal trasporto che prova a suonare il suo maestro onorario. Il quid è racchiuso invece nel complesso di artisti che lo accompagnano, su tutti i due fedeli chitarristi, Andy Fairweather Low e Doyle Bramhall II (session men molto amato anche da Roger Waters), oltre al piano di Billy Preston che suona in un boogie, lì sì un po’ anacronistico (per non parlare della batteria), e un’armonica (Jerry Portnoy) certamente molto azzeccata ma non di meno mai utilizzata da Johnson, così come lo slide, determinante nel suono del disco come mai sperimentato da Johnson, che semplicemente cantava e suonava, era un menestrello impazzito tra il Mississippi e l’infinito, ascoltandolo sembra di stare con lui in una stanza piena di nulla, un vuoto cosmico che conferisce a quelle strampalate canzoncine un velo di castità. Un primo, precoce sbarco sulla Luna della musica, con tutte le ruggini del caso.

Ma lungi da Clapton voler fare una copia di ciò che la storia ha già consegnato all’eternità, e lungi da lui volersi contrapporre al maestro. Anzi, Eric pare calarsi nella parte dell’allievo che si diverte a far sentire al suo mentore quanto sia bravo ad avvicinarsi appena alla sua grandezza. Infine apprezzo lo sforzo di evitare i tormentoni più abusati, parlo di Sweet Home Chicago e della stessa Crossroads, che in questo caso sarebbe risultata anche pleonastica dopo la bellissima parentisi creamiana. E per il fatto che questo disco non colpisce per virtuosismi strumentali, può essere un’occasione per analizzare più da vicino Robert Johnson partendo dai suoi enigmatici testi.

When you got a good friend parla di un uomo che maltratta la sua donna e non si spiega il perché, soprattutto se questa è considerata una buona amica, oltre a una buona amante. Interpretazione ineccepibile, pezzo di solo centrale azzeccato, chiusura lineare, con il tipico susseguirsi di accordi blues che culminano lentamente in si settima.

Little queen of spades è un elogio ai poteri di persuasione che possiede l’animale donna. Che qui è raffigurata come la regina di picche, e nel mezzo vi è anche la citazione del Mojo. Cos’è il Mojo? Nel blues è usatissimo, anche se di difficile traduzione perché deriva dai neri d’america e dalla tradizione pellerossa, si tratta di un amuleto portafortuna (o anche sfortuna), o nel caso maschile è l’attributo… Ohh fair brown… ancora una volta Robert/Eric si appellano in questi termini alla donna, una «bella marroncina».

They’re red hot è uno dei brani più celebri di Johnson, inizia con un tributo ai Tamales, un piatto tipico peruviano che Robert deve aver assaggiato in versione molto piccante. Nel testo notiamo anche la consueta abitudine di Johnson di utilizzare giochi di parole in sequenze di multipli e sottomultipli, come per esempio «She got two for a nickel, got four for a dime».

Me and the devil blues è semplicemente il motivo per cui i testi di Johnson furono spesso considerati demoniaci. Sembra di starlo a sentire mentre racconta la storia della sua dipartita con il demonio, che causerà botte e percosse alla donna (anche questa una costante dei brani di Johnson), lei gli chiede il perché, me lo ha detto Satana risponde, per poi chiedere di seppellire il suo corpo al bordo dell’autostrada, così l’anima potrà prendere il primo bus e volare via.

Traveling riverside blues, bellissima, coinvolgente, piano in boogie costantemente attaccato alle spalle, Clapton sfodera tutta la sua passione, anche attraverso la chitarra, in un brano che è un altro cimelio della storia di Johnson, dove cita testuale di aver dato la sua anima in pegno…

Last fair deal gone down, attacco lento, ripresa veloce e da ballad western. Tema, è l’ultimo accordo da suonare, non piangere Ida Belle, «If you cry about a nickel, you’ll die ’bout a dime» (eh, che vi dicevo…), scenario la città di Gulfport, Mississippi.

Stop breakin down blues. Il pezzo secondo me più riuscito, quasi lo preferisco all’originale, che comunque è geniale. Insomma, «The stuff I got’ll bust your brains out, baby», ma soprattutto «hoo hoo», per chiudere in «it’ll make you lose your mind».

Milkcow’s calf blues è lo stesso attacco, identico, della Crossroads dei Cream, e forse è anche per questo che acquisisce anche qui un’aurea di splendore tutto particolare. Ennesima filastrocca, questa volta protagonista è una mucca che, malata, fa del latte blu. Il contadino la lascia cambiare aria e città, ma la fine non è delle migliori: «Well, how can you suck on some other man’s bull cow In this strange man’s town?».

Kind hearted woman blues è una presa di coscienza, Johnson ammette di avere una donna che «studia il male tutto il tempo», e come sono struggenti i versi, allo stesso modo Clapton la interpreta come una funebre sequenza di accordi blues, una vena che lo porta ad accorarsi con acuti stridenti e probabilmente il più bel solo di tutto il disco.

Come on in my kitchen. Parla da sola, un’altra perla del maestro, senza troppe parole da aggiungere, come anche Clapton ha rispettato in toto i dettami dell’originale.

In If I had possession over judgement day invece Johnson si domanda cosa avrebbe potuto fare se avesse avuto il dono della possessione, c’è l’episodio della montagna, anche, che molti suoi successori hanno estrapolato a loro piacimento, quasi una summa delle delizie del delta.

Love in vain: passo ripreso anche dai Rolling Stones, il treno, la stazione, che ai tempi di Jagger erano routine, ai tempi del maestro invece erano oggetto di culto e di storie non solo in musica (vedi The Great Train Robbery, celebre contrometraggio di Edwin S. Porter). Solo finale sgangherato come la più tosta tradizione country blues può concepire, chitarra malferma, corde lente e molto, molto ritmo.

Ritmo che torna prepotente in 32-20 blues. È l’onore riservato alla prima pistola di tipo “lever-action”. Un altro frammento di come Johnson fu da esempio per tanti bluesmen successivi. E «Gonna shoot my pistol, gonna shoot my gatling gun» non ricorda il celeberrimo «Yeah, I’m goin’ down to shoot my ol’ lady now» di Hey Joe?

Hell hound on my trail è, lo dice il titolo stesso, il cane dell’inferno sulle tracce del musicista, probabilmente si tratta di Cerbero, che tradizione greca vuole di guardia all’inferno e dalle sembianze molto vicine a quelle canine. Questo brano sembra discostarsi dai tradizionali blues di Johnson per il fatto che le prime due strofa sono identiche in tutto (meno che del testo negli ultimi versi), così che uno si aspetta il cambio da mi minore a la minore già dalla prima battuta e invece resta piacevolmente colpito dallo slide in si a chiudere, così per tutta la durata di questa ultima, inesorabile ballad della selezione claptoniana.

Dietro il missaggio di questa raccolta di cover c’è Alan Douglas, e il suono, devo dire rasenta la perfezione, in tutto, nei bassi, nel giusto dosaggio del resto degli strumenti. Una scelta, quella di lavorare sulla qualità del suono, che sicuramente paga, e ne sarebbe stato orgoglioso anche lo stesso Robert Johnson, le cui registrazioni invece oggi ci sembrano uscire dall’oltretomba per quanto gracchiano e si sentono male. Tuttavia preferisco mille volte ascoltare le originali, anche se quest’opera di traduzione di Clapton merita degna menzione. Il fatto è che sembra che Slow Hand questo album lo abbia concepito soprattutto per se stesso, quasi come un punto di arrivo segnato da un destino che non poteva volere altrimenti, il che può essere visto anche come un merito. Per me vale 7,4.



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