Ne ha parlato il mondo intero. L’Italia poco, com’è nostra pessima tradizione. La settimana scorsa l’Israel Museum di Gerusalemme ha aperto le porte della più grande esposizione archeologica mai organizzata nella sua terra, e la prima al mondo sulla controversa figura di Erode il Grande. Fu il re della Strage degli innocenti, fece uccidere la propria moglie e i propri figli, ma il suo non fu solo il regno del terrore. Fu costruttore infaticabile e fece fiorire il deserto: dal Tempio di Gerusalemme a Cesarea, da Masada al palazzo di Gerico all’Herodion, seppe letteralmente trasformare la sua terra. E dare lavoro alla sua gente: anche allora l’edilizia serviva a rilanciare l’economia. La mostra parla proprio dell’Erode costruttore, delle sue sfide alla natura, oltre che dei suoi complessi rapporti diplomatici con Roma. Ma è innanzitutto una mostra che rende omaggio a una scoperta: quel mausoleo sulle pendici della collina dell’Herodion che l’archeologo Ehud Netzer portò alla luce nel 2007 annunciando al mondo di aver trovato la tomba del grande re, da lui cercata per oltre 40 anni. Il luogo dove, ironia della sorte, Netzer stesso trovò la morte nel 2010, a seguito di una brutta caduta. I tecnici del museo hanno condotto un lavoro di restauro colossale per unire tra loro le migliaia di frammenti trovati, e ora risplendono in mostra il mausoleo ricostruito, il sarcofago che era al suo interno, le sue pareti dipinte e altri affreschi dal palazzo del re in cima al colle artificiale, tra molte altre meraviglie. Solo dall’Herodion sono giunti a Gerusalemme più di 30 tonnellate di materiali. E qui sta il punto dolente.
L’Herodion, come anche la residenza estiva del re a Gerico, si trovano nei Territori occupati dove, in base agli accordi di Oslo del 1993, Israele è autorizzato temporaneamente a condurre scavi archeologici e a gestire il sito, ma non di certo a portarsi a casa i materiali. Sia il Ministro della cultura dell’Autorità palestinese Rula Maayah, che il direttore del dipartimento delle antichità palestinese Hamdan Taha, hanno accusato la mostra di violare gli accordi internazionali: loro non sono stati neppure interpellati. E un gruppo di archeologi israeliani, Emek Shaveh, ricorda come l’intera idea che sta alla base della mostra risulti in realtà più potente di qualsiasi nuovo insediamento nei Territori: “Trasmette il messaggio che quei luoghi, indipendentemente dalle soluzioni politiche che si adotteranno, sono parte dell’identità israeliana” ha osservato uno dei fondatori Yonathan Mizrachi. A tutti loro, il direttore dell’Israel Museum James S. Snyder ha risposto ricordando “l’ingente somma di denaro (non dichiarata) che il museo ha speso per restaurare e presentare al pubblico oggetti che diversamente sarebbe andati perduti, come molte antichità in Iraq ed Egitto”. “Noi non ci occupiamo di geopolitica – continua Snyder – Noi facciamo del nostro meglio e ciò che è giusto per la conservazione dei beni culturali. Il nostro obiettivo è stato investire nel restauro di questi materiali per poterli poi restituire ai siti a cui appartengono. Noi non siamo che i loro custodi”.
Il problema, però, è proprio questo. È vero che molti nuovi archeologi israeliani si sono oramai liberati della vecchia retorica sionista che spingeva i loro predecessori a cercare ovunque nella Terra Santa le prove storiche del diritto del popolo ebraico ad abitarla. Oggi sono i paladini di un’archeologia più obiettiva che vuole indagare e presentare al pubblico la “vera storia” libera da ogni strumentalizzazione ideologica. Ma è molto difficile essere davvero “obiettivi”, specie in un luogo dove ogni atto, anche il più insignificante, assume un significato politico. E in realtà l’obiettività del lavoro dello studioso è essa stessa retorica propugnata in origine dalle organizzazioni internazionali che, come abbiamo già osservato a proposito di Mostar e altri casi (qui, qui e qui), sono solite proporre soluzioni internazionalmente ed eticamente ineccepibili che però collidono con le esigenze reali dei singoli luoghi, rischiando di produrre esiti devastanti.
Illuminante in questo senso è il caso dell’antica città nabatea di Avdat nel deserto del Negev, così com’è narrato qui dallo studioso Chemi Shiff. Avdat fu indagata negli anni Sessanta e presentata al mondo come prova della capacità degli antichi abitanti del luogo di far fiorire il deserto, proprio come si preparavano a fare i nuovi coloni di quegli anni. Ben Gurion stesso volle inaugurare il parco archeologico di Avdat, dopo che si era trasferito a vivere in un kibbuz lì vicino. Peccato che i nabatei non avessero molto a che spartire con l’antico popolo di Israele, e che Avdat non fosse in realtà quella grande città e potenza commerciale che era stata dipinta. Anche Erode, del resto, era estraneo a Israele essendo figlio di una nabatea e di un idumeo, e fu solo bravo ad approfittare dei dissidi interni per prendere il potere. Ma fu per l’appunto colui che mantenne lo Stato coeso, lo rese importante, e costruì il Tempio di cui ancor oggi si vede una parte. Erode è una figura di grande significato per il popolo ebraico e per questo si è potuto sorvolare sul fatto che non fosse ebreo, proprio come si è sorvolato sulla gente di Avdat.
Negli anni Novanta, però, si è voluto riaggiustare l’immagine di Avdat, sdoganarla dal marchio sionista, e presentare al visitatore la sua “vera storia”. Il parco archeologico è stato trasformato con nuova segnaletica, belle animazioni, un visitor centre che comprende persino una costruzione simile a una tenda beduina. Doveva servire a spiegare quanto la società del Negev sia stata e sia ancora multiculturale, a essere insomma “politically correct”, ma ne è uscito però un prodotto troppo finto e troppo smaccatamente turistico. Avdat è stata poi inserita in due importanti circuiti turistici: la “Via del Vino”, una rete di case vinicole (proibite nell’islam), e la “Via dell’incenso”, dichiarata Patrimonio dell’umanità dell’Unesco nel 2005. L’area turistica si è dunque espansa a dismisura relegando necessariamente gli indigeni beduini ai margini. La finta tenda li ha trasformati addirittura in attrattiva, qualcosa da mettere in mostra e per questo forse neppure più esistente nel mondo reale. Nell’ottobre 2009 dei beduini del villaggio vicino sono penetrati nel parco archeologico danneggiando pesantemente le strutture antiche. “È stato un tentativo, anche inconscio – scrive Schiff – di rompere la barriera creata dal parco archeologico tra i beduini e gli ebrei, e di chiedere di partecipare alla determinazione del paesaggio fisico e simbolico del Negev”.
Prima, con Avdat “sionista”, i beduini erano ancora qualcuno nel Negev. Erano il nemico ma erano qualcuno. Ora tutto è stato appiattito in nome del business turistico che ha solo in apparenza un valore “universale”. La neutralità può essere più pericolosa di qualsiasi presa di posizione. Così è forse anche per la magnifica, sontuosa e ipertecnologica mostra su Erode. Anche lì non si tratta solo di asettica ricerca scientifica, rigorosa cura dei monumenti e banale business, come ha dichiarato il direttore del museo. Dietro si nasconde necessariamente molto altro. Dal gennaio 2012 all’Herodion, sul luogo del mausoleo antico, c’è una sua ricostruzione in miniatura alta solo 4 metri. Ma il 14 gennaio scorso è stato annunciato l’avvio di un programma che, con tre anni di lavoro e un budget di 50.000 dollari, vedrà svettare sull’Herodion una ricostruzione del monumento a grandezza naturale, alta ben 23 metri. Dicono che sarà visibile già da Gerusalemme. Se non è ingerenza questa.