Magazine Opinioni
di David Incamicia |
"Una persona non muore quando dovrebbe, ma quando può"Gabriel García Marquez
"La morte distrugge un uomo, l'idea della morte lo salva"Edward Morgan Forster
"Noi moriamo soltanto quando non riusciamo a mettere radice in altri" Lev Tolstoj
Sono solo aforismi, frasi ad effetto su un tema assai delicato e controverso che ho selezionato fra mille altre pillole di saggezza per introdurre due storie accomunate dall'effetto che stanno suscitando, ancora una volta con esagerato clamore, nel dibattito pubblico. Come se la vita e la morte fossero due casacche a cui dichiararsi fedeli, due tendenze o correnti alle quali aderire. E invece è tutto assai più semplice, basta chiudere gli occhi e ascoltare il dolore di persone esattamente come noi, talvolta perfino migliori. Esseri profanati dalla meschinità imprevedibile dell'esistenza e dalla stolta incapacità di altri esseri a sentirli e riconoscerli prossimi. Ma in fondo sono anche più "fortunati", possono percepire non solo se stessi con maggiore pienezza poiché è ciò che sono che li spinge ed aiuta ad esplorare, ad imparare, ad accettare.
Eppure si tratta di storie caratterizzate sempre dal retrogusto amaro del fato cinico e baro. Cominciamo dalla prima. Nel terzo millennio si può finire in coma dopo un banalissimo intervento a un dente. E divenire proprio malgrado protagonisti di vicende tragiche, come quella di un brillante architetto siciliano di 42 anni, Giuseppe Marletta, che un anno fa venne ricoverato in un centro specializzato per la rimozione di due punti metallici applicati dopo l’estrazione di una radice. Intervento dal quale si sarebbe risvegliato per appena 15 minuti per poi entrare in coma. Da allora non si è più ripreso: è immobile, tracheotomizzato, nutrito col sondino e aspirato ogni due ore. "Quando viene aspirato - racconta la coraggiosa moglie Irene Sampognaro - assume un’espressione di terrore. Soffre moltissimo e questo la scienza lo può dimostrare".
"A questo punto - aggiunge la donna - è meglio farlo morire. Sono pronta a sospendere l’alimentazione forzata perché lo Stato ha ucciso mio marito e poi lo ha abbandonato al suo destino". E' disperata ma determinata Irene, che protesta incessantemente davanti ai cancelli dell’ospedale dove il calvario ha avuto inizio: "Voglio che tutti sappiano quanto sono crudeli le nostre istituzioni di fronte ad un allucinante caso di malasanità: non riescono a garantire né giustizia né adeguata assistenza. Mio marito prima di entrare in ospedale scoppiava di salute, oggi è un vegetale disteso su un letto. Questa non è vita... Solo quando ti ci trovi dentro capisci veramente il caso Englaro".
Eccola la scintilla, l'accostamento proibito che può costare caro. Il caso Englaro è ancora presente nella memoria collettiva e in Italia, rispetto a esperienze simili e al di là dei moralismi di convenienza, è arduo non rilevare nello Stato un approccio crudelmente ipocrita: "Dice di essere per la vita - sbotta Irene riferendosi allo Stato stesso - ma in realtà ti spinge a scegliere la strada della morte". Giuseppe Marletta è attualmente ricoverato in una struttura convenzionata con l’Azienda sanitaria, dove però la moglie deve farsi carico di una parte sostanziosa dei costi: "Mille euro al mese, praticamente tutto il mio stipendio di insegnante! Ho chiesto aiuto al ministro della salute, all’assessore regionale alla sanità, alle istituzioni locali. Tutti mi hanno sbattuto la porta in faccia. Eppure mio marito è stato irrimediabilmente annichilito da un ospedale pubblico. Perché nessuno paga?".
Già, perchè? Perchè in questo Paese i deboli, per nascita o per imprevisti "incidenti di percorso", devono subire la sorte di soffrire due volte per lo stesso dolore? Perchè è così difficile per loro trovare sponde, tutele, garanzie, semplicemente ascolto? E’ proprio vero, è una storia dura quella di Giuseppe, una di quelle storie destinata presto ad occupare salotti e rotocalchi televisivi. Ma Irene non si lascia intimidire, non arretra di fronte alla prospettiva per niente remota di processi mediatici: "Non attenderò che mio marito soffra per una ventina di anni e oltre senza alcuna speranza. E senza giustizia. Se non succederà nulla intraprenderò la stessa strada di Peppino Englaro".
"Omicidio assistito!", sarà allora l'indignata accusa che si leverà di nuovo da parte dei soliti farisei, i fasulli difensori dell'ortodossia bacchettona e integralista. Più per convenienza che per principio. Io direi invece che quella "minaccia" di Irene rappresenta una conferma d'amore, verso il proprio uomo che vuole riportare alla vita. Ma per compiere "il miracolo" ha bisogno di uno Stato meno prevenuto ed egoista. Dunque è chi lascia sola quella donna che commette l'omicidio, non lei che rivolge al suo Giuseppe solo l'affettuosa "promessa" che non attenderà invano la solidarietà e il supporto di chi non vede la sofferenza altrui e non sente il grido di aiuto di un proprio figlio.
Chi certamente non ha potuto attendere è un uomo che, dall'altra parte dell'Oceano, ha avuto in sorte dalla "vita" di doverla trascorrere preparandosi alla morte. Derek Miller era un blogger canadese, forse il più famoso nel suo Paese. E' morto a 41 anni il mese scorso a causa di un cancro. Nel suo blog aveva documentato l'avanzamento della malattia lasciando addirittura le istruzioni affinchè al suo decesso fosse pubblicato quello che è già diventato famoso come il "post post mortem". Curioso, no? Colui che è stato fra i primi al mondo ad attivare un diario personale sul web, oltre 10 anni fa, ora sul suo http://www.penmachine.com/ annuncia la propria morte, da morto...
"Ecco qua. Sono morto e questo è l'ultimo post del mio blog", inizia così la sua ultima lettera, il suo addio al mondo, ai suoi cari, ai tanti cybernauti che ne hanno seguito fino in fondo le vicende. Alcuni organi di stampa lo hanno definito "il suo ultimo inno alla vita scritto da morto". E in effetti è stata una dichiarazione che ha scosso non poche persone se è vero che si sono contati ben 8 milioni di contatti in homepage il giorno dell'annuncio.
Derek, padre di due figlie di 13 e 11 anni, era diventato famoso per come aveva affrontato e raccontato sul blog la sua lotta contro la più odiosa e sleale fra le malattie, con ironia e apparente freddezza. Come quando, in un post del 6 aprile di quest'anno, rivolgendosi ai cittadini statunitensi ha chiesto loro di portargli due cose introvabili in Canada: la diet coke alla ciliegia e il formaggio spray Easy Cheese della Kraft. "E se qualcuno mi dice che questi sono orribili 'quasi-cibi' che mi faranno venire il cancro... non farò altro che ridere e ridere", scrisse beffardo e compiaciuto in quella occasione.
Non trovo molte differenze fra la rabbia di Irene, moglie di Giuseppe, e il piglio guascone di Derek: sono entrambe reazioni di chi intende sconfiggere una vita che non è vita, fino a desiderare di toglierla a se stessi o a un proprio caro quando non si intravedono alternative degne, o attendendo "la fine" con strafottente disincanto ed emancipati dalla paura quando invece si è certi che l'unica alternativa possibile sia sfidare la morte annusandola, sfiorandola, guardandola negli occhi. Perchè quando tutto si fa d'improvviso più "chiaro e definitivo", quando si ha solo da chiedere spavaldi a se stessi di accompaganrsi all'uscita dell'esistenza amandosi come forse mai nessuno era mai riuscito ad amarti prima, allora i concetti riduttivamente "mondani" di vita e di morte vengono percepiti con più leggerezza, senza quelle sfumature prigioniere dei dogmi e delle misere distorsioni umane.
Chi non teme la morte a causa del dolore non c'è dubbio che nutra per essa un profondo rispetto, perchè apprezza "la vita" a prescindere da quella che gli è stata riservata in sorte. Non è una fuga, o anche solo un'inutile ed effimera rivalsa sulle avversità. No, è piuttosto il compimento fugace del senso stesso dell'esistenza. Autentico, maturo, ultimo. E se alcuni considerano incomprensibile e "di comodo" questa visione, o ingiusta e priva di qualsiasi legittimazione etica, che dedichino qualche minuto del loro tempo alla lettura proprio dell'ultimo post di Derek Miller. E' già da un mese che circola in Rete ma io lo ripubblico qui di seguito, sperando possa aiutare voi che ancora non lo avete letto come ha aiutato me ad essere meno severo e più indulgente con chi, a suo modo, dichiara il proprio amore alla vita. Tutto d'un fiato... alla fine di tutto.
The last postBy Derek on May 4, 2011 7:51 AM
Ecco qua. Sono morto e questo è l’ultimo post del mio blog. In anticipo, ho chiesto che quando il mio corpo avesse cessato di subire le sofferenze causate dal cancro, allora la mia famiglia e i miei amici pubblicassero questo messaggio scritto da me – cominciando così la trasformazione del mio sito in un archivio.
Se non mi conoscevate affatto, probabilmente lo avete appreso da un’altra fonte, ma comunque l’abbiate saputo, consideratelo come una conferma: io sono nato il 30 giugno 1969 a Vancouver, in Canada, e sono morto a Burnaby il 3 maggio 2011, a 41 anni di età, a causa delle complicazioni di un cancro colorettale al 4° stadio.
Noi tutti sapevamo che sarebbe accaduto. Intendo la mia famiglia e i miei amici, i miei genitori Hilkka e Juergen Karl. Le mie figlie Lauren, di 11 anni, e Marina, che ne ha 13, hanno saputo tutto ciò che si poteva dire da quando ho scoperto che avevo il cancro. E purtroppo è diventato parte della loro vita.
AIRDRIE
Ovviamente era al corrente di tutto anche mia moglie Airdrie (nata Hislop). Entrambi nati a Vancouver Metro, ci siamo diplomati nel 1986 in differenti scuole superiori, e studiato biologia alla UBC, dove ci siamo incontrati nel 1988. Quell’anno durante l’estate lavorando come naturalisti in un parco, io capovolsi la canoa mentre Air e io stavamo pagaiando e dovemmo spingerla a riva.
Abbiamo condiviso alcune classi, poi ci siamo persi di vista. Ma pochi anni dopo, nel 1994, io stavo ancora lavorando all’università. Airdrie notò il mio nome e mi scrisse una lettera – sì! su carta! – e alla fine (io stavo cercando di diventare un musicista a tempo pieno, così mi trovavo nel caos) le scrissi una risposta. Da questi semi fiorì un giardino: era marzo del 1994, e ad agosto 1995 eravamo sposati. Non ho mai avuto un ripensamento, perché siamo stati sempre bene insieme, nelle situazioni cattive e peggiori e negli eventi positivi e straordinari.
Tuttavia, non pensavo che il tempo trascorso insieme si sarebbe rivelato tanto breve: 23 anni dal nostro primo incontro (al Kanaka Creek Regional Park, sono abbastanza sicuro) fino alla mia morte? Non abbastanza, tutt’altro che troppi.
LA FINE
Non sono andato in un posto migliore, o in uno peggiore. Io non sono andato da nessuna parte, perché Derek non esiste più. Non appena il mio corpo cesserà di funzionare, e i neuroni del mio cervello smetteranno la loro attività, subirò una notevole trasformazione: da un organismo vivente ad un cadavere, come un fiore o un topo che non riescono a superare una notte particolarmente gelida. E’ evidente che una volta morto, tutto è finito.
Così non ho avuto paura della morte – di quel preciso istante – e di ciò che viene dopo, che era (ed è) niente. Da sempre, ho avuto piuttosto paura del processo di morire, dell’aumento della debolezza e dell’affaticamento, del dolore, di diventare sempre meno quello che ero in questa fase. Ho avuto la fortuna di conservare inalterate le mie facoltà mentali nel corso dei mesi e degli anni prima di morire, e che nessun segno di tumore è stato riscontrato nel mio cervello – per quanto io o chiunque altro ne sapesse.
Da bambino, quando imparai solo le sottrazioni, feci il conto di quanti anni avrei avuto nel 2000. La risposta fu 31, che sembravano tanti. In verità, a 31 anni mi sono sposato e ho avuto 2 figlie, e lavoravo come scrittore di tecnologia e informatica nell’industria dei computer. Una discreta riuscita, credo.
Ma dovevano avvenire ancora molte cose. Dovevo ancora iniziare questo blog, che è ormai sul web da 10 anni. Non stavo ancora suonando la batteria con la mia band, non ero un podcaster (non esisteva il podcasting, perché non c’era l’iPod). Nel mondo della tecnologia, Google era ancora una novità, Apple era "assediata", Microsoft dominava in lungo e largo, e mancavano svariati anni alla comparsa di Facebook e Twitter. Solo dopo 3 anni le sonde telecomandate Spirit e Opportunity sarebbero state lanciate verso Marte, mentre la sonda spaziale Cassini-Huygens era circa a metà strada verso Saturno. Il genoma umano non era stato ancora mappato.
Le Torri Gemelle erano ancora in piedi a New York. Jean Chrétien si confermava primo ministro in Canada, Bill Clinton Presidente degli Stati Uniti, Tony Blair primo ministro in Gran Bretagna, mentre Saddam Hussein, Hosni Mubarak, Kim Jong-II, Ben Alì e Muammar Gheddafi erano al potere in Iraq, Egitto, Nord Corea, Tunisia e Libia.
Nella mia famiglia, nel 2000 mio cugino non avrebbe avuto un figlio per altri quattro anni. Un’altra mia cugina era all’inizio della relazione con l’uomo che ora è suo marito. Sonia, con cui mia madre era amica da sempre (da quando entrambe avevano nove anni) era ancora viva. Così la mia Oma, la madre di mio padre, che allora aveva 90 anni. Né mia moglie né io avevamo avuto mai bisogno di lunghi ricoveri ospedalieri – non ancora. Le nostre figlie portavano ancora i pannolini, per non parlare di fare fotografie, scrivere storie, andare in bicicletta o a cavallo, postare su Facebook, o avere una taglia di scarpe superiore a quelle della mamma. Non avevamo un cane.
E non avevo il cancro. Non sospettavo nemmeno che lo avrei potuto avere, certamente non nel successivo decennio, o che mi avrebbe ucciso.
CIO’ CHE HO PERDUTO
Perché vi ho raccontato tutte queste cose? Perché ho capito che, in qualsiasi momento, posso rammaricarmi per quello che non conoscerò mai, ma che non posso rimpiangere ciò che ho avuto. Sarei potuto morire nel 2000 (alla "veneranda" età di 31 anni) e avere avuto una vita felice: una splendida moglie, i miei magnifici figli, un lavoro divertente e gli hobby che mi piacevano. Ma mi sarei perso un sacco di cose.
Molte cose accadranno ora senza di me. Mentre scrivevo queste righe, io non avevo un’idea precisa di ciò che potrà accadere. Come sarà il mondo al più presto nel 2021, o al più tardi nel 2060, quando avrei avuto 91 anni, l’età che ha oggi mia nonna Oma? Quali cose nuove conosceremo? In che modo cambieranno le nazioni e la gente? Come comunicheremo e ci muoveremo? Chi ammireremo, o chi disprezzeremo?
Che cosa farà mia moglie Air? Le mie figlie Marina e Lolo? Che cosa studieranno, come trascorreranno il loro tempo e si guadagneranno da vivere? Avranno figli loro? E nipoti? Ci saranno situazioni della loro vita che adesso io potrei comprendere con difficoltà?
COSA SAPERE, ORA CHE NON CI SONO PIU’
Non ci sono risposte oggi. Quando stavo scrivendo queste cose, non mi capacitavo di dover perdere tutto questo, non perché avrei voluto assistere agli avvenimenti, ma perché non sarei stato lì a sostenere Air, Marina a Lauren nelle prove della vita.
Nessuno può immaginare cosa veramente lo aspetta nella vita. Siamo in grado di fare programmi, e di fare ciò che più ci piace, ma non possiamo aspettarci che i nostri programmi si realizzino. Alcuni di loro forse sì, ma altri probabilmente non potremo concretizzarli. Potremo avere idee e iniziative, ma potranno accadere eventi che non avremmo mai potuto prevedere. Ciò non è buono o cattivo, è la realtà.
Spero che questa sia la lezione che le mie figlie trarranno dalla mia malattia e dalla mia morte. E che anche la mia splendida, meravigliosa Airdrie possa comprendere. Non che potrebbero morire ogni giorno, ma che dovrebbero perseguire ciò che più gli piace, ciò che stimola la loro mente, per quanto possibile – in modo che possano sfruttare ogni opportunità, così come possano non restare deluse quando le cose andranno male, come inevitabilmente succede.
Sono anche stato fortunato. Non mi sono mai dovuto chiedere come mi sarei procurato il mio prossimo pasto. Non ho mai dovuto temere l’arrivo di soldati stranieri, con mitra e machete, che avrebbero ucciso o ferito la mia famiglia. Non ho dovuto mai lottare per la vita (cosa che adesso non potrei comunque fare). Purtroppo, invece, queste cose sono per molti una realtà quotidiana.
UN LUOGO MERAVIGLIOSO
Il mondo, anzi l’intero universo, è un posto bellissimo, sorprendente e meraviglioso. Ci sono sempre più cose da capire. Io non mi rivolgo indietro e non rimpiango nulla, e spero che la mia famiglia troverà il modo di fare la stessa cosa.
Ciò che è vero è che vi ho voluto bene, Lauren e Marina, e quando crescerete e andrete avanti negli anni, sappiate che vi ho amato e che ho fatto del mio meglio per essere un buon padre.
Airdrie, tu sei stata la mia migliore amica e il mio legame più profondo. Io non so cosa saremmo stati l’uno senza l’altra, ma credo che il mondo sarebbe stato un luogo più povero. Ti ho amato profondamente... ti amo, ti amo, ti amo.
Derek Miller
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