A volte penso che noi avvocati occidentali siamo fortunati. E’ pur vero quello che riporta oggi il Corriere della Sera, e cioè che in Italia la professione forense è diventata un ripiego per notai mancati e per aspiranti burocrati in attesa di impiego, determinando così un numero di avvocati che ha inflazionato il mercato, rendendo sempre più accesa la concorrenza e più difficile lo svolgimento della professione, abbassando contemporaneamente il livello qualitativo dei professionisti.
Ma quando leggo di avvocati come la cinese Ni Yulan, radiata dall’Albo, arrestata e torturata dagli sgherri del potere capital-comunista di Pechino, allora capisco che noi avvocati italiani siamo fortunati, perché possiamo fare il nostro lavoro senza paura di essere perseguitati dal potere contro il quale, è l’essenza della nostra professione, dobbiamo combattere, in difesa dei soggetti più deboli.
Non riesco a vedere nessun’altra ragione di esistere per noi avvocati, se non quella di schierarci come baluardo in difesa dei deboli contro gli abusi del potere.
E’ questa la molla che mi ha spinto, ahimè decenni orsono, ed è questa l’unnica motivazione che ancora mi tiene in tensione nello svolgimento di una professione che ha bisogno di grandi motivazioni, senza le quali l’avvocato rischia di diventare un collettore di danaro altrui.
Ni Yulan ha coerentemente interpretato la professione forense ed ha pagato a caro prezzo la sua coerenza.
E come lei tanti avvocati nel terzo mondo (penso all’Egitto, all’Iran, alla Birmania, alla Russia e a tanti altri Stati ancora lontani dalla democrazia) pagano a caro prezzo il loro essere avvocati nel più autentico dei significati possibili: la difesa dei deboli e degli ultimi dalla inevitabile arroganza del potere.
Per saperne di più sulla storia di Ni Yulan vai al link sottostante: