La pirateria rimane una fonte di preoccupazione per le navi che passano nel Corno d’Africa anche se il numero degli incidenti è diminuito fortemente dal 2011, anno in cui le Nazioni Unite hanno deciso di deliberare l’uso dei militari a bordo delle grandi imbarcazioni. La cronaca ha reso noto i fatti legati al fenomeno, ma non l’economia della pirateria.
Un progetto delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale, chiamato Pirate Trails (Le rotte dei pirati), ha analizzato i particolari finanziari delle organizzazioni dedite al saccheggio del tratto di mare di fronte alla Somalia. Gli autori hanno intervistato pirati ritirati o ancora in attività, i loro sostenitori finanziari, ufficiali governativi, mediatori ed altre figure legate all’attività di pirateria condotta nel Corno d’Africa, principalmente da soggetti provenienti dalla Somalia.
Hanno stimato che dal 2005 al 2012 sono stati pagati riscatti per un ammontare compreso tra i 339 e i 413 milioni di dollari. Una media di 2,7 milioni di dollari per riscatto. Un pirata percepisce di solito tra i 30.000 e i 75.000 dollari con un bonus di 10.000 per il primo ad andare “all’arrembaggio”.
Spesso nelle azioni di arrembaggio ai pirati è fornito un credito costituito da una provvista di Qat, una pianta narcotizzante che viene masticata e rientra nell’elenco dell’Organizzazione Mondiale della Sanità come sostanza stupefacente. Il consumo di Qat viene registrato e al termine dell’operazione, a riscatto pagato, ogni pirata prende la sua quota meno quella che ha consumato. Questa pianta rappresenta “l’oro verde” del corno d’Africa e il suo commercio è un grande business nella regione.
Altre spese forfettarie, di circa 5.000 dollari, sono previste per il cibo e per i “cattivi comportamenti”, come le prostitute per l’equipaggio. Questo costo deriva direttamente dal codice di comportamento degli antichi pirati come è emerso dalle memorie del pirata del XVII secolo John Phillips che narrava anche di come la pena di morte era comminata a coloro stuprassero una delle prostitute portate in dote.
Parte del riscatto viene elargito alle comunità locali che provvedono ai servizi in loco. Altri pagamenti sono per i cuochi, “magnaccia”, avvocati e per le macchine adibite al controllo di banconote false.
Somme considerevoli vanno anche alle milizie che controllano i porti. Per il porto di Haradheere, una città a nord della capitale della Somalia Mogadiscio, i pirati versano una “tassa di sviluppo” del 20% agli Shabab, una milizia islamica vicina ad Al Qaeda.
Finanziare una spedizione può essere considerevolmente economico se la compariamo agli introiti che ne possono derivare. L’arrembaggio “base” costa poche migliaia di dollari e può essere coperto dai soli partecipanti senza finanziatori esterni.
Spedizioni più grandi che coinvolgono più imbarcazioni, potrebbero costare circa 30.000 dollari e necessitano di un finanziamento esterno. Quest’ultimo può arrivare da ex – poliziotti, ex – ufficiali militari, impiegati statali, spacciatori di Qat, da pescatori e ex – pirati. I finanziatori esterni percepiscono dal 30% al 75% del riscatto.
Il report identifica gli Stati del Gibuti, del Kenia e degli Emirati Arabi Uniti come i principali punti di transito e destinazioni finali dei proventi dei saccheggi.
Un terzo dei pirati investono i soldi per formare milizie o guadagnare influenza politica. Alcuni utilizzano, secondo il settimanale britannico The Economist, il denaro anche per finanziare gruppi religiosi estremisti come il caso del pirata somalo Ciise Yulux, uno dei leader più influenti del Corno d’Africa, che fornisce soldi e equipaggiamenti a combattenti legati agli Shabab e ad Al Qaeda.
Se pensi di emigrare e sei un tipo avventuroso non fermarti alle mete più comuni, think globally e se in più, hai qualche dollaro prova a diversificare i tuoi investimenti. Parola di pirata.
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