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EST(r)FATTO: Ucciso Mu’ammar Gheddafi. C’eravamo tanto amati

Creato il 20 ottobre 2011 da Eastjournal @EaSTJournal

di Matteo Zola

EST(r)FATTO: Ucciso Mu’ammar Gheddafi. C’eravamo tanto amati

Mu’ammar Gheddafi è stato ucciso, pare che il convoglio di auto che lo trasportava fuggitivo sia stato bombardato dagli aerei della Nato. Muore un criminale. Muore senza processo, un processo che sarebbe stato difficile sia per la quantità di segreti (o presunti tali) che il raìs avrebbe in quella sede potuto rivelare, sia per l’evidente capacità di Gheddafi di dissimulare, mascherare, inquinare e sempre rovesciare a suo favore le situazioni. Così ha fatto per quarant’anni di regime, così ha fatto in politica internazionale. Un abilità dovuta spesso ai miliardi di petrodollari investiti in Europa e negli Stati Uniti. Un criminale, Gheddafi, che è stato accusato di aver ordinato attentati terroristici in Scozia e Francia. Un criminale, però, “amico” del cosiddetto Occidente fino a ieri l’altro. Italia in testa. Vale la pena di ripercorrere le tappe dei rapporti tra Italia e Libia.

L’attacco a Lampedusa e la telefonata di Craxi, anno 1986

Già nel 1986 la Nato bombardò il raìs, l’Italia si mostrò tiepida, dovette fornire le basi ma non volle farsi coinvolgere. Il 15 aprile del 1986 Gheddafi lanciò due missili SS-Scud contro l’Italia. Caddero a 2 km da Lampedusa, in acque territoriali italiane. Un atto di guerra bello e buono. Una ritorsione – si disse – per il bombardamento della Libia da parte degli Stati Uniti nell’operazione El Dorado Canyon. Il governo non reagì. Perché?

L’allora generale di brigata aerea Mario Arpino, Capo del 3º Reparto “Pianificazione delle Forze Aerospaziali” dello Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana, dal gennaio 1986 al settembre 1987, in una intervista del 2005, ricorda quegli eventi:

M.A.: «All’indomani del caso Lampedusa, Cottone mi incaricò per conto del Governo di studiare una ritorsione contro la Libia nell’eventualità di altre azioni ostili. Noi preparammo una serie di piani.» – G.D.F.: «Ma i nostri radar avvistarono gli Scud?» – M.A.: «I nostri radar non erano in grado di scoprire missili di quel genere. Avevamo chiesto alla NATO di fornirci degli AWACS, radar volanti molto potenti, ma ci furono concessi mesi dopo.» – G.D.F.: «Solo i satelliti U.S.A., quindi, potevano vedere gli Scud: solo gli occhi spaziali americani che in quel momento tenevano sotto controllo tutto il Canale di Sicilia. Ma Washington a chi trasmetteva i dati dei satelliti?» – M.A.: «Gli americani non hanno mai interferito a livello operativo: io ero responsabile della sala di crisi e non mi comunicarono nulla. Se informavano qualcuno, lo facevano a livello politico. So con certezza che non venimmo nemmeno avvisati del raid contro Tripoli. Ricordo la sorpresa quella notte quando i nostri radar scoprirono gli aerei diretti in Libia*.

L’attacco missilistico fu immediatamente rivendicato dai libici. Il primo a farlo, 24 ore dopo, il 16 aprile 1986, fu l’ambasciatore libico a Roma, Abdulrahaman Shalgam.

Il 20 settembre 2005, il generale di squadra aerea Basilio Cottone, all’epoca dei fatti capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare dichiarò:

Personalmente non ho mai creduto che siano stati lanciati missili da parte libica contro il territorio italiano. Ma, poiché allora tutti lo credevano ho ritenuto di operare di conserva. La notizia del lancio dei missili per me era falsa e le azioni messe in atto volevano accreditarla. Molte organizzazioni extranazionali erano allora interessate al fatto che il governo italiano adottasse una politica di più forte chiusura nei confronti della Libia*.

Il generale Arpino, secondo un articolo de L’espresso, affermò:

Dubbi su quella vicenda ci sono sempre stati. Non abbiamo mai trovato prove evidenti dell’attacco: nemmeno una scheggia*.

Lo stesso 15 aprile 1986, ebbe luogo un blitz militare sulla Libia per volere del presidente statunitense Ronald Reagan: un massiccio bombardamento ferisce mortalmente la figlia adottiva di Gheddafi, ma lascia indenne il colonnello, che poi si scoprirà essere stato preventivamente avvertito delle intenzioni statunitensi da Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio italiano.

Gli anni Duemila: banche, energia e armi

Dagli anni 2000 riprendono le relazioni bilaterali tra Italia e Libia, nel 2008 viene firmato il Trattato di Bengasi in base al quale l’Italia pagherà 5 miliardi di dollari alla Libia come compensazione per l’occupazione militare. In cambio, la Libia prenderà misure per combattere l’immigrazione clandestina dalle sue coste, e favorirà gli investimenti nelle aziende italiane.Il Trattato di Bengasi rappresenta il definitivo accoglimento da parte italiana delle rivendicazioni libiche in materia di risarcimenti per le vicende coloniali attraverso la costruzione di un’autostrada di duemila chilometri lungo la costa libica.

Il Trattato avvia una cooperazione energetica che consente ad Eni – che sembra ormai detare l’agenda del ministero degli Esteri – di entrare da leader nel mercato energetico libico. Ci sono poi accordi nel campo delle telecomunicazioni (Lafitrade, insieme a Fininvest, controllano il 10% di Quinta Communications, società di Tarak Ben Ammar, nipote del primo presidente tunisino Bourguiba) e nel settore bancario ( i fondi sovrani libici hanno acquisito il 4,23% del gruppo Unicredit, diventandone il secondo maggiore azionista, e salvandolo da una grave crisi). Attraverso una triangolazione con Malta, infine, sono arrivate a Tripoli le armi del signor Beretta.

Eros e Thanatos

E poi? Allo scoppio della guerra civile – che oggi si conclude – il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, definì Gheddafi “il modello di capo arabo”. Il primo ministro Silvio Berlusconi si disse preoccupato per la vita del raìs. Visti gli esiti, non aveva tutti i torti. Così finisce questa storia, un amore – quello italolibico – durato quarant’anni. Un amore tormentato, come i tutti i grandi amori, e finito in tragedia: un trionfo dell’eros e thanatos, come nelle migliori love story.


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