Mi corre l'obbligo, nonché il privilegio, di dirimere un'annosa questione linguistica, di dissolvere un fastidioso fraintendimento che, alimentato dalla esecrabile ineducazione proposta da certa filmografia e dalle televisioni nostrane, si è consolidato nell'accezione comune della metafora in oggetto, che ho ritagliato direttamente dal meritevole Wikipedia.
Nel Centro-Sud, il termine "cozza" ha assunto recentemente un'accezione gergale e metaforica, di probabile provenienza romanesca, connotante una donna o ragazza decisamente brutta
Apparentemente, discettandone con connazionali non provenienti dalla capitale, ma anche con concittadini dell'Urbe appartenenti alle generazioni posteriori alla mia, l'equazione cozza=ragazza decisamente brutta parrebbe essere correlato all'aspetto esteriore di entrambe.
Cioé, secondo questa moltitudine di disinformati, il Mytilus galloprovincialis avrebbe una brutta conchiglia e tale involucro giustificherebbe l'utilizzo del suo sinonimo vulgaris per descrivere, con accezione derogatoria oltremodo pesante, una ragazza o una donna di fattezze inequivocabilmente sgradevoli, secondo i canoni più comunemente diffusi.
Scavalco a pie' pari l'opinabilità dei criteri estetici riguardo al genere femminile; non sono un filosofo.
Vorrei solo dissentire profondamente, però, sull'estetica del mollusco, prima di arrivare alla questione nodale, il qui pro quo.
Ritengo che la conchiglia della cozza - una volta ripulita dal bisso che ne ottunde la forma e la texture - sia un mirabile esempio di design, un packaging per finger food naturalmente dotato di Armani look.
Allora, veniamo direttamente al punto:
non è con l'esterno della cozza che si paragona un'invetusta pulzella,
ma con l'interno.
Ora, attenzione, la lettura di quello che segue è sconsigliato a chi abbia uno stomaco delicato o un animo suscettibile.
A Roma la prima accezione vernacolare del termine
COZZA,
escluso il significato intrinseco di mollusco edule, è
AMMASSO ESAGERATO DI ESPETTORATO CHE GUARNISCE CON IL SUO GIALLO INTENSO IL GRIGIO SPENTO DEI MARCIAPIEDI.
In parole povere, uno sgommarello di catarro, abbandonato per la via con nonchalance, generalmente da vecchi o incalliti fumatori o pazienti affetti da bronchite cronica.
Naturalmente mi asterrò dal corredare questo post con adeguata documentazione fotografica a sostegno della pittoresca ancorché azzeccata metafora romanesca che, per translazione, è stata successivamente estesa alle rappresentanti del gentil sesso con non altrettanto gentile aspetto.
Non posso esimermi dal manifestare la mia solidarietà a tutte quelle donne che, anche se solo una volta, anche se solo per celia, si siano sentite apostrofare in cotal guisa.
A loro dedicherei due favole di Esopo, questa e questa, come parziale risarcimento morale.