Gli emiliani si sentono abbandonati mentre ancora la terra trema. I va ben a caghér che si sono sentiti durante la fantasmatica visita di Monti, esile come il personaggio, sono l’espressione della rabbia per il silenzio della politica e del governo che trova espressione nelle parole di Paolo Malagodi, docente della Bocconi, in una lettera al Corsera: ”La nostra insoddisfazione nutrita dall’incessante angoscia per una terra che continua a tremare, si unisce alla rabbia per non vedere nessuno dei politici di spicco in doverosa visita a questo territorio”.
Ma in realtà siamo tutti emiliani perché un grande silenzio è sceso sul destino del Paese. Un silenzio spaventato e infingardo insieme, l’epitaffio di una classe dirigente al fallimento che cerca di parlare d’altro, che si affanna a progettare pasticci costituzionali ed elettorali per la propria salvezza o si abbandona ai luoghi comuni come alle bandiere strappate dal vento . Certo si fa presto a dire antipolitica, il monito non costa nulla e alla fine è altrettanto qualunquista del bersaglio che vorrebbe colpire: ma sentiamo mai parlare qualcuno dei temi fondamentali che ci stanno schiacciando? Si parla dell’euro e del suo destino? Dell’Europa e dei suoi assetti , di quelle stanze affollate di burocrazia, ma così vuote di politica che si può sentire l’eco? E’ come se porre la questione sia di per sé averla decisa, sia come la violazione di un tabù: eppure sappiamo bene, dalla storia degli ultimi vent’anni che ci sono pro e contro, che prima o poi bisognerà scoprire le carte. A meno che lo scopo finale dei massacri che si stanno compiendo abbia una precipua finalità politica più che economica: cioè mettere in causa la democrazia stessa.
Ma nulla. Il cuore dei nostri problemi, l’ipoteca che si affaccia sui prossimi decenni non viene nemmeno sfiorata da una destra ormai sfatta come il lettone di Putin e con sospetti resti organici, però neanche dalla sinistra che pettina amorevolmente i suoi feticci e che ha smarrito la speranza in qualche consiglio di amministrazione. Men che meno ne parla il governo, intento a eseguire i compitini imposti dalla preside, a scrivere la brutta copia, macchiata e scomposta, del tema sull’iniquità. Un governo che giorno dopo giorno vede fallire le proprie ricette, che è lì per salvarci, come recita il coro della casta, ma che mostra ormai il suo smarrimento e l’abbandono agli eventi, incapace di persuasione, ma solo di arroganza.
Così non soltanto c’è un’assenza totale di dibattito sulle questioni vitali, ma l’Italia è anche assente dalla scena europea dove il premier si finge mediatore, ma in realtà è capace di aggrapparsi ora a questo ora a quella, in un crescendo di incapacità a esprimere gli interessi e le necessità del Paese. L’oligarchia di poteri finanziari, economici, politici e mediatici, si mostra ormai chiaramente nella sua impalcatura, senza i trompe l’oeil della retorica e con tutto il grottesco fardello della sua assoluta mediocrità.
Il re si sta denudando- e non solo quello di Arcore – ma tutta la grande corte dei miracoli che da decenni impera e sgoverna appoggiandosi in egual misura ai vizi e alle virtù degli italiani: messa di fronte alle scelte non sa cosa dire e le evita come la peste. Come se le persone non avvertissero fin troppo bene l’ombra che avanza, il temporale che si sta formando, quell’atmosfera di sospensione e di emersione simbolica che c’è nella tempesta di Giorgione. Ma la corte sa solo chiacchierare davanti al quadro, parla d’altro sperando che qualcosa intervenga a salvarla dalla sua nullità. Si indigna dell’antipolitica, si compiace delle paure che peraltro alimenta. E’ così distratta che non si accorge che è l’ora di chiusura del museo. E che fatalmente o esce con le proprie gambe o provvederà il pubblico.