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Europa fortezza di carta

Creato il 02 agosto 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Davide D’Urso

Europa fortezza di carta
La crisi finanziaria dell’Eurozona non ha ancora distrutto l’Unione Europea (UE), ma senz’altro ne ha ridotto il peso e la capacità d’azione a livello internazionale. Gli eventi degli ultimi mesi hanno infatti dimostrato la sorprendente incapacità degli Europei di risolvere crisi interne, come quella finanziaria, e di relazionarsi con crisi internazionali come la cosiddetta “Primavera araba”. Divisioni tra Stati membri, debolezza delle istituzioni comunitarie e mancanza di una visione condivisa del futuro sono i principali colpevoli di una paralisi che si ripercuote giornalmente in tutti gli ambiti della vita politica ed economica del continente.

Dal punto di vista della politica internazionale, è evidente che un attore capace di trasformare l’emergenza finanziaria di uno dei suoi più piccoli Stati membri in una crisi sistemica in grado di frammentarlo e di distruggere la sua moneta, rischia di risultare assai poco credibile al di fuori dei propri confini. Nel caso europeo la percezione esterna riveste poi un’importanza particolare. Uno degli elementi più interessanti che hanno caratterizzato storicamente l’azione esterna dell’Europa in costruzione è stata una considerevole componente di soft power. Una perdita significativa di immagine, ancor peggio se accompagnata ad una paralisi decisionale e operativa come quella che stiamo vivendo, può compromettere anche la capacità dell’Europa di porsi negli anni a venire come modello per altre regioni ed altri attori del sistema internazionale.

Al momento dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, molto si è scritto a proposito delle innovazioni che il nuovo testo avrebbe comportato per la politica estera europea, dando all’UE la capacità di agire nel mondo come un unico e coerente attore politico. L’Europa ne sarebbe uscita rafforzata, capace di parlare con una sola voce, dotata di un proprio servizio diplomatico (il Servizio Europeo per l’Azione Esterna, SEAE), una sorta di Ministro degli Esteri (l’Alto Rappresentante per la gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza) e un presidente permanente del Consiglio Europeo. Inoltre, essa avrebbe dovuto trarre ulteriore forza e visibilità internazionale in ragione di un modello socioeconomico che la crisi finanziaria ed economica nata negli Stati Uniti avrebbe reso ancora più desiderabile ed imitato nel mondo. Tali auspici, risalenti ad appena quattro anni fa, suonano oggi come un ricordo lontano e quanto mai pittoresco.

L’ottimismo di lady Ashton

Europa fortezza di carta
Non sembra dello stesso avviso l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, la baronessa Catherine Ashton. Nominata nel dicembre 2009, la responsabile del SEAE, nonché vicepresidente della Commissione Europea e presidente del Consiglio Affari Esteri, è stata oggetto di critiche particolarmente severe, incentrate anzitutto sulla debolezza della sua leadership. Avendo un curriculum non perfettamente calzante con la carica che è stata chiamata a ricoprire, molti hanno presentato la sua nomina come una mossa degli Stati più grandi volta a disinnescare le potenzialità della nuova figura istituzionale, le cui funzioni e i cui poteri, nelle mani di personalità del calibro del suo predecessore Javier Solana, avrebbero potuto dare una svolta “federale” all’azione internazionale dell’UE.

Affermando la priorità che la politica estera dell’UE dovrebbe dare alla promozione internazionale dei diritti umani, Ashton ha recentemente ha respinto le tesi di coloro che vedono nella crisi dell’euro indizi di un declino dell’Europa e l’ultima prova della sua incapacità di agire come attore internazionale coerente ed unitario [1]. L’UE resta la prima economia al mondo per PIL, la prima potenza commerciale e uno dei principali donatori a livello internazionale; secondo l’Alto Rappresentante, la sua capacità di agire nel mondo non sarebbe minata dalle lacerazioni tra Stati membri e da quello che negli ultimi mesi sembra un introverso assorbimento delle energie delle istituzioni comunitarie nel tentativo di portare la nave fuori dalla tempesta finanziaria.

La difesa ottimistica di Catherine Ashton potrebbe solo ingenerosamente essere definita come ingenua: i dati che ricorda sono reali, l’Europa resta un colosso economico e una superpotenza commerciale decisiva per le sorti dell’economia globale, la sua moneta – nonostante tutto – continua ad essere forte e il suo mercato interno il più ambito al mondo. Se però si va al di là dei dati quantitativi statici e si prendono in considerazione le prospettive di crescita economica e demografica in rapporto ad altre regioni ben più dinamiche del mondo, l’Europa sembra destinata a perdere rilevanza economica e quindi politica. In un’ottica dinamica e di proiezione futura, aspettare momenti migliori e chiudersi in se stessi sembrerebbe per l’Unione e i suoi Stati membri la scelta peggiore.

La fortezza che non fu e quella che alcuni vorrebbero

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, con la firma dell’Atto Unico Europeo (1987) e la successiva entrata in vigore del trattato di Maastricht (1993), nasceva l’UE grossomodo come la conosciamo oggi. In quegli anni presero forza, soprattutto negli Stati Uniti, voci e timori circa il rischio che l’Europa si trasformasse in una “Europe fortress”. Il pericolo che il mercato unico europeo diventasse impenetrabile per le merci straniere e che emergesse un’identità politica europea non più legata alla sola fedeltà atlantica era tale da spingere l’amministrazione americana del presidente Clinton a lanciare progetti di liberalizzazione commerciale su base regionale (NAFTA, 1992).

II trattato di Maastricht non solo tracciava il percorso a tappe verso l’Unione economica e monetaria e l’introduzione della moneta unica, ma lanciava la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), che doveva dare alla confusa e incerta identità politica europea una capacità di azione e coordinamento superiore, in grado di rendere l’UE un attore credibile sulla scena politica del mondo post-Guerra fredda.

Un’Europa destinata a crescere in estensione territoriale, popolazione e presumibilmente in potere economico, minacciava di insidiare la posizione di predominio di Washington, contribuendo a spingere il sistema internazionale in una direzione multipolare caratterizzata da blocchi regionali in gara tra loro. Tali paure sono state smentite dai fatti: l’UE non solo non è diventata una superpotenza e non ha minato la leadership americana – rimasta tale per tutti gli anni Novanta – ma non è riuscita neppure a completare il proprio mercato interno e a garantire la stabilità dei suoi più immediati confini. Il dramma dei Balcani di fronte alla paralisi decisionale dell’Europa è un dramma ancora scolpito nella memoria di tutti.

Di fronte alla crisi economica globale e alle sue attuali ricadute sull’Europa, non sono in pochi coloro che ritengono che l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero optare per una strategia internazionale meno “liberale” [2]. Soprattutto dal punto di vista commerciale e dell’affermazione dei propri interessi geopolitici, l’Unione dovrebbe mettere in campo una politica maggiormente finalizzata alla difesa del proprio modello sociale e del proprio sistema produttivo, attraverso una politica estera maggiormente coesa finalizzata a garantire la sicurezza delle forniture energetiche e favorendo le esportazioni del made in Europe, attraverso politiche neoprotezionistiche e interventi di svalutazione della moneta unica.

L’ex Presidente francese Nicholas Sarkozy si era fatto alfiere di una proposta di radicale revisione degli accordi di Schengen, nella direzione di maggiori controlli e limitazioni ai confini dell’UE e della possibilità per i suoi Stati membri di sospendere gli accordi limitando la libertà di circolazione delle persone sul territorio dell’Unione [3]. La priorità concessa dall’opinione pubblica europea alle questioni legate alla crisi economica, ha rimosso il tema del contrasto all’immigrazione clandestina dalle prime pagine dei giornali, ma significativi passi nella direzione di una fortificazione delle frontiere esterne dell’UE, una politica più severa circa la concessione di visti e permessi di soggiorno e i tentativi di definire una politica comune di contrasto agli ingressi illegali sono ancora in fase di elaborazione da parte delle istituzioni europee.

A fronte delle ribellioni in numerosi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, la priorità che l’Europa ha dato esternamente l’impressione di porsi non è stata quella di una revisione della propria politica nell’area o di concreto sostegno ai movimenti di ispirazione liberale, ma una chiusura in se stessa. La proiezione internazionale è sempre più lasciata all’intraprendenza di singoli Stati membri, in particolare la Francia – impegnata dal punto di vista politico nel ritagliarsi una propria posizione di media potenza – e la Germania – ormai colosso economico e commerciale che tende ad agire come autonoma potenza geoeconomica, interessata a garantirsi approvvigionamenti energetici ed accesso ai mercati esteri. In questa fase, all’Unione e alle sue istituzioni comuni, sembra restare soltanto lo spazio della ratifica di decisioni assunte a livello di capitali nazionali e queste, a differenza di quanto affermato da lady Ashton, non hanno come priorità la promozione globale dei diritti umani, quanto l’affermazione di propri interessi geopolitici ed economici [4]. Il tutto a discapito di una coerenza e di un impegno liberale verso i principi che – stando alla lettera del trattato di Lisbona – “ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo” [5].

L’Europa potenza “diversa”

Ciononostante, soprattutto in ambienti accademici europei, è ancora particolarmente diffusa la visione di un’Europa quale attore politico internazionale sostanzialmente diverso dagli altri. A dispetto di quanto si potrebbe pensare da una lettura superficiale e rigidamente realista, che vede nella presenza di forze militari e nella capacità di azione diplomatica i fondamenti di ogni politica estera propriamente detta, l’Europa del secondo dopoguerra ha dispiegato una propria caratteristica azione internazionale. Per ragioni storiche e istituzionali, tuttavia, la Comunità Europea prima e l’UE poi hanno potuto operare in quanto soggetti unitari esclusivamente in quegli ambiti – principalmente commerciali, della cooperazione allo sviluppo, del dialogo politico sui diritti umani e, non da ultimo, dell’allargamento dei propri confini ad altri paesi europei – in cui la Guerra fredda lasciava spazio di manovra e in cui gli Stati membri avevano ceduto quote della propria sovranità.

Tale attenzione alla diversità dell’attore “Europa”, entità sempre a metà tra un’organizzazione regionale e una federazione di Stati, si è declinata in vari appellativi che si sono susseguiti nel corso degli anni. Non avendo a disposizione, fino alla seconda metà degli anni Novanta, strumenti di politica estera tradizionale, soprattutto militari, François Duchêne parlò a metà degli anni Settanta della CEE come di una “potenza civile” [6]. Mario Telò ha recentemente ripreso tale definizione, aggiornandola alla situazione internazionale degli anni Duemila [7]; ampliando il concetto non solo al rifiuto dello strumento militare, ma alla diversità dei suoi obiettivi, l’UE sarebbe “civile” in quanto finalizzerebbe la propria azione internazionale ad obiettivi olistici, così come presentati dalla prima strategia di sicurezza europea, preparata dall’ex Alto Rappresentante Javier Solana e sottoscritta da tutti gli Stati membri dell’UE [8].

Gli scritti di quegli anni risentono della contrapposizione venuta a crearsi tra l’Europa – o parte di essa, la cosiddetta “vecchia Europa” – e gli Stati Uniti di George W. Bush. La volta unilateralista dell’amministrazione americana seguita all’11 settembre 2001 contribuì a rinverdire l’idea dell’Europa come di una potenza civile e “venusiana”, come ebbe modo di scrivere molto criticamente Robert Kagan, in contrasto rispetto al Marte americano.

Si trattava di un’Europa che, in realtà, già aveva abbandonato lo spirito liberale degli anni Novanta a vantaggio di un approccio più realistico e difensivo in seguito al completamento dell’allargamento ad Est. Tale cambiamento è ben testimoniato dalla politica mediterranea europea, che vide il passaggio dal modello multilaterale e paritario del Partenariato Euromediterraneo (PEM), all’inserimento delle relazioni con il paesi del Nord Africa e del Medio Oriente nel quadro della Politica Europea di Vicinato (PEV). Dall’assetto multidimensionale e olistico del PEM, si è passati dal 2003 ad un rapporto basato soprattutto sulle tematiche legate alla sicurezza tradizionale – lotta al terrorismo, contrasto alle migrazioni illegali, sicurezza energetica e liberalizzazione commerciale – e assai meno al dialogo politico, alla promozione della democrazia e dei diritti umani. Tale svolta realistica, registrata da studiosi come Richard Youngs, è riscontrabile in numerosi altri ambiti dell’azione internazionale europea [9].

L’importanza dei mezzi. Missioni e bilancio

Un esame critico della politica estera dell’UE richiede coscienza dei mezzi a disposizione di questo “strano” attore internazionale. Se nel corso della sua storia di integrazione l’Europa ha saputo agire nella politica internazionale anche senza gli strumenti militari e senza gli apparati diplomatici propri degli Stati sovrani, l’emergere di nuove grandi potenze come Cina, India e Brasile, accanto al relativo declino del potere degli Stati Uniti, hanno reso necessari passi avanti dell’UE dal punto di vista della capacità di agire nel mondo, indipendentemente dai suoi obiettivi di lungo periodo – che restano, almeno retoricamente, olistici e liberali.

Una delle più importanti novità introdotte alla fine degli anni Novanta in risposta alla palese incapacità degli europei di agire in aree di instabilità anche ai propri immediati confini è la Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD). Lanciata nel 1998 superando la tradizionale contrapposizione franco-britannica sul tema, essa ha messo a disposizione dell’Unione i mezzi necessari a dispiegare missioni internazionali con strumenti civili e anche militari. Tale politica è stata parzialmente riformata dal trattato di Lisbona, diventando la PCSD (Politica Comune di Sicurezza e di Difesa).

Europa fortezza di carta

Fonte: EUEA

Attualmente l’UE ha attive nel mondo 12 missioni internazionali composte da oltre 6.200 unità tra personale civile e militare. Le più significative sono attive nei Balcani, in particolare in Bosnia-Erzegovina, dove dal 2004 operano 1160 uomini impiegati nella missione militare EUFOR Althea, e in Kosovo, dov’è attiva la missione civile EULEX Kosovo, che dispiega un personale di oltre 2100 unità. Circa 1300 militari sono impegnati nella missione navale EUNAVFOR Atalanta, impegnata nella lotta contro i pirati davanti alle coste della Somalia, mentre una missione civile (EUMM Georgia), è attiva con oltre 400 persone per monitorare il rispetto dei termini previsti dalla tregua russo-georgiana dopo la guerra dell’estate del 2008.

L’attività di gestione attiva delle crisi rappresenta una delle più interessanti dal punto di vista della politica estera europea. La sua dislocazione territoriale mette in luce quali sono le aree di maggiore interesse per l’intervento comune europeo – Balcani e Africa soprattutto – e il mix di personale civile e militare, nonché delle modalità operative, rappresenta una caratteristica interessante e originale della capacità europea di gestione delle crisi. Cosa continua a mancare all’Europa, ben più della capacità di dispiegare missioni e di realizzarle, è la volontà politica comune di agire quando necessario. Il caso dell’intervento internazionale Libia è sicuramente indicativo di questo punto.

Nel 2012, l’UE ha destinato al finanziamento della propria politica estera 9,4 miliardi di euro, circa il 6,4% del suo bilancio complessivo (che è pari ad appena l’1% del PIL europeo). Le principali voci di spesa riguardano gli interventi legati alla cooperazione allo sviluppo (2,6 miliardi) e l’assistenza finanziaria per i paesi partner della PEV (2,3 miliardi). Il bilancio per la politica estera del 2012 è cresciuto del 7,4% rispetto all’anno precedente [10].

La proposta di bilancio della Commissione Europea per il 2013 non prevede aumenti significativi della spesa in ambito di politica estera, privilegiando interventi mirati a incentivare la crescita economica nel continente. Se la bozza attualmente elaborata sarà approvata da Parlamento Europeo e Consiglio dell’UE, gli strumenti finanziari a disposizione dell’Unione nella sua politica estera cresceranno dello 0,7%, ossia di appena 61,2 milioni di euro [11]. Viste le sfide che l’UE si troverà ad affrontare soprattutto nel sostegno alla transizione democratica dei paesi del Mediterraneo, la scelta sembra essere, ancora una volta, quella dell’introversione delle istituzioni comunitarie, con gli Stati membri lasciati relativamente liberi di gestire individualmente e, spesso, in concorrenza gli uni con gli altri, i propri aiuti finanziari.

È interessante infine leggere la proposta di programmazione finanziaria della Commissione Europea per il periodo 2014-2020. Per quanto riguarda i fondi destinati all’azione esterna dell’Unione, la Commissione prevede di destinare, nei sei anni previsti, un ammontare complessivo di oltre 96 miliardi di euro. Tale scenario vedrebbe un discreto aumento delle dotazioni finanziarie, che restano comunque una quota significativamente piccola dell’ammontare complessivo del già ridotto bilancio comunitario.

Conclusioni

Se mai lo è stata, l’Unione Europa ha smesso di essere una “potenza liberale” all’inizio del terzo millennio. Completato l’allargamento orientale e finito il momentum unipolare americano, l’emergere di nuove grandi potenze nel sistema internazionale nonché le crescenti difficoltà dell’architettura istituzionale internazionale di rispondere a nuove sfide e nuove minacce inter e intrastatali, hanno reso l’Europa meno sicura, meno aperta e meno disposta a riconoscere gli interessi e il benessere degli altri come parte dei propri obiettivi politici.

Dal punto di vista della politica commerciale, da sempre competenza comunitaria e punto di forza dell’Europa unita, il fallimento del negoziato multilaterale per un nuovo round di liberalizzazioni, gli scontri legati all’anacronistica politica agricola comune con i paesi in via di sviluppo e gli Stati Uniti d’America, al pari dei frequenti conflitti con la Cina in sede di WTO, hanno ostacolato ulteriori passi verso l’integrazione dei mercati internazionali. Al tempo stesso, la crisi economica globale ha rallentato il commercio e incentivato in ogni paese, Europa compresa, spinte protezionistiche e mercantiliste che si credevano superate.

L’UE si trova oggi di fronte alla scelta tra ulteriori passi nell’integrazione economica e politica – che non potrà che comportare una politica estera maggiormente coesa, coerente e incisiva – e la disgregazione. Se, com’è auspicabile e plausibile, si andrà nella prima direzione, l’Europa dovrà sciogliere i suoi decennali nodi strategici, definendo i propri interessi collettivi in relazione all’assetto internazionale nel quale si ritroverà ad operare. Se l’Europa vorrà concepirsi come blocco regionale mercantilista, protezionista e chiuso in se stesso, con ogni probabilità continuerà a percorrere la strada del declino. Basti pensare all’autentico dramma demografico vissuto dal nostro continente, che arriverà a pesare sempre meno dal punto di vista economico e politico, ma anche alla necessità di reperire fonti energetiche diversificate.

Gli Stati europei possono coltivare l’illusione dell’autosufficienza e dell’isolamento come mezzo per risolvere una crisi economica e politica senza molti precedenti, ma dovranno rendersi conto che, in un mondo in cui blocchi contrapposti chiusi in se stessi gareggiano per il predominio regionale e globale, l’Europa non ha speranze di uscire vincitrice. Una fortezza può sopravvivere solo a patto di avere solide mura e la capacità di produrre da sola i mezzi per il suo sostentamento. Se l’UE sceglie la strada dell’introversione e della chiusura, diventerà una fortezza di carta in mezzo alla tempesta.

Solo in un sistema internazionale multilaterale, aperto e cooperativo, l’UE può continuare a rivestire un ruolo di primo piano in quanto attore economico e politico. L’Europa può essere “sicura”, nel senso di prospera, stabile e dinamica, soltanto in un “mondo migliore”, per il quale l’azione liberale e cooperativa degli europei resta un elemento decisivo, oggi come nel futuro.

* Davide D’Urso è Dottore in Scienze Politiche (Università di Torino)

[1] Ashton, C., The EU’s Rights of Passage, ECFR, 9 luglio 2012

[2] Si legga per esempio: Freudenstein, R., “A More Realistic Europe”,  Strategic Europe, settembre 2011

[3] The Wall Street Journal, “Sarkozy Threatens to Exit Schengen Area”, marzo 2011

[4] Youngs, R., Martingui, A., “Challenges for European foreign policy in 2012. What kind of geo-economic Europe?”, FRIDE, 2011

[5] Art. 21 Trattato sull’Unione Europea: “L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale.”

[6] Duchêne, F., “Europe’s Role in World Peace”, 1972.

[7] Telò, M., “L’Europa potenza civile”, Ed. Laterza, 2004.

[8] “European Security Strategy. A more secure Europe in a Better World”, 2003.

[9] Youngs, R., “The EU’s Role in World Politics”, Ed. Routledge, 2010.

[10] Commissione Europea, “Bilancio UE per il 2012

[11] Commissione Europea, “Proposta di bilancio UE per il 2013”.


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