Quando Ralph Waldo Emerson, oggi riconosciuto come uno dei personaggi chiave della cultura americana, arrivò, nel suo giro di conferenze, alla costa del Pacifico, disse agli amici qualcosa che a noi suona decisamente bizzarro: “Fin qui è arrivato l’Impero romano”. E non sembra strampalato perché sono passati più di 160 anni, ma perché siamo cresciuti dopo la guerra che ha distrutto i paesi del continente, dentro un mondo bipolare e alla luce della “necessaria” unione europea perché mai più si ripetesse il massacro. Poco importa che la pace fosse in realtà sostenuta dalla presenza di due blocchi molto vicini per potenza o che la Francia di De Gaulle ben dopo il trattato di Roma abbia tentato di scipparci la Valle D’Aosta (tentativo sventato dagli Usa) ragione poi di un bilinguismo inesistente e di ampi tagli sulla fiscalità indiretta per tenerci stretta la regione. Cosa che non era accaduta nemmeno nel continente belligerante di un secolo prima. Insomma non ci rendiamo conto dell’artificialità dell’idea di Europa e scambiamo la contiguità geografica con la persistenza di un progetto che in realtà non è mai davvero stato in campo. E che semmai, dopo le incipienti rivoluzioni prima borghesi e poi operaie collegava progetti di trasformazione sociale e politica in paesi comparabili come modi di produzione.
Ma in realtà sono due i concetti che si sono alternati e incrociati in vari modi: quello dell’impero universale e quello delle nazioni. Emerson si riferiva appunto alla prima e interpretava in questa chiave di antica legittimazione l’espansione degli Usa, come del resto altri ne facevano una ragione di colonialismo. Sono due concezioni nate in Italia e ben rappresentate alla corte di Ravenna già qualche decennio dopo la caduta di Romolo Augustolo: Teodorico il Grande pensava di essere l’erede dell’impero, sia pure in consenso – contrasto con Bisanzio mentre il suo consigliere Cassiodoro già pensava a un regno romano – ostrogoto, autonomo rispetto al basileus di Costantinopoli grazie al ripristino del senato di Roma, ma solo “egemone” e non inclusivo rispetto ad altri regni barbarici.
Come possiamo vedere ci sono già tutte le componenti della futura storia del continente: da una parte un investitura formale come centro del sacro romano impero e del suo senso di universalità, dall’altro la ricerca di un’egemonia reale o comunque di un’indipendenza di fatto come nel caso dei comuni italiani. Qualcuno forse pensa che l’idea di Europa sia nata con Carlo Magno, ma è un errore: il regno franco aspirava all’universalità e se questa era ridotta di fatto alla piccola europa occidentale senza nemmeno penisola iberica era dovuto alla pressione araba da sud, quella slava da est e quella vichinga da nord che rendevano impossibile un’espansione oltre questi angusti confini territoriali. L’europa era in realtà un ritaglio in negativo dentro un disegno e un sogno globale. E ancora adesso egemonia e investitura si giocano la loro partita, dopo secoli di lotte che hanno visto prevalere la Spagna, poi la Francia, poi l’Inghilterra e infine la Germania, prima che entrambi gli elementi trasmigrassero oltre atlantico.
Quando gli illuministi, da Rosseau a Kant pensavano all’Europa era solo come embrione di uno spazio di libertà che avrebbe dovuto aprirsi a tutto il mondo e che non avrebbe avuto senso senza la prospettiva di una estensione a tutta l’umanità. Di certo nessuno pensava a una super nazione, anzi si rifletteva sull’utilità di conservare e tutelare le differenze come elemento dinamico e humus del progresso. L’idea degli Stati Uniti d’Europa, a imitazione di quelli oltre atlantico, nasce, dopo le prime incubazioni degli anni ’20 (leggi qui), durante la seconda guerra mondiale per intuibili e forse nobili motivi, ma in un contesto talmente differente da quello nord americano da renderlo di fatto inattuabile: l’idea di sostituire i nazionalismi di Paesi così diversi tra loro con un nazionalismo internazionale, tanto per rendere con un ossimoro il paradosso, era palesemente illusorio e soprattutto inaccettabile nel tentativo di riempire tutta la politica con questo ingombrante progetto, mettendo parte i temi dell’uguaglianza, della solidarietà e della democrazia come armamentario reazionario. Purtroppo quest’ultima è la sola parte del Manifesto di Ventotene che si sia realizzata.
In ogni caso vaneggiare analogie con il federalismo statunitense si basava in gran parte sull’idea di America che emerge dai reportage del sopravvalutato Toqueville, un confuso notabile della provincia francese, trascurando del tutto il fatto che esso era nato sullo sterminio delle popolazioni autoctone e si era poi rafforzato su una guerra di conquista da parte del nord che aveva preso a pretesto l’abolizione dello schiavismo, dimostrando come una costruzione federale non implica necessariamente l’abolizione del conflitto, ma possa addirittura crearlo. E di fatto solo l’ascesa dell’imperialismo Usa evitò che lo scontro divenisse endemico. Non a caso esso comincia a risorgere nel contesto di un mondo multipolare. Al fondo l’idea degli Stati Uniti di Europa era un prodotto del declino del continente che aveva reso deboli i padroni di immensi imperi: unirsi a formare un corpo più grande era una soluzione. Ma essa imponeva, come si vede ora con grande chiarezza , di mettere in secondo piano la politica e cioè la direzione e il contenuto sociale di questa unione. Anche qui è evidente il fallimento dei fini, ma il successo dei mezzi: l’Europa non è mai riuscita a costituire un’alternativa agli Usa, anzi trova una certa unità solo come succedaneo della Nato, ma in compenso ha sterilizzato ogni idea politica che non sia l’adeguamento all’ultima versione del capitalismo Usa.
Non ci si può stupire che le popolazioni del continente non si siano mai affezionate a questa visione, che del resto è abbastanza artificiale. E se in passato lo erano per la chiusura mentale prodotto dalle piccole patrie declinanti , adesso lo sono ancor di più per i massacri sociali compiuti in suo nome e per lo scippo di una sovranità che viene consegnata a centri di potere di fatto privati e non a istituzioni elettive sulle quali si può influire e giocare i propri diritti di cittadinanza. Occorre dunque tornare all’illuminismo e a Kant, abbandonare l’idea dell’Europa come super nazione, per riaffermarla come spazio comune di civiltà e non di sottrazione di diritti. Solo così il continente potrà davvero tornare ad esprimere un’idea di potere universale, cioè quella del comune progresso sociale. Che tra l’altro- per compiacere la concretezza – è la sola cosa che possa davvero coordinare i vari Paesi e dare loro anche una nuova rilevanza economica.