Conoscere la storia, anche uno spaccato di vita, di un musicista senza ricorrere alle fonti principali come le biografie è impresa ardua ma allo stesso tempo divertente e interessante. Si scoprono lati che i più non conoscono, si svelano aspetti sconosciuti e imprevedibili.
Talvolta, come in questo caso, si ottiene soltanto (ma mica poco) la costatazione che il lavoro di ricerca è servito a qualcosa, tipo contestualizzare la figura di Charles Brown, caldo e delicato pianista blues molto attivo soprattutto tra gli anni ’50 e ’70.
Texano di nascita, si è fin da giovanissimo radicato in California, tra Los Angeles e San Francisco, rivestendo un ruolo da protagonista nella scena blues di quella zona, dove i bluesmen iniziavano a inserire nelle band tutta una serie di strumenti collaterali, come il sassofono per esempio, che conferiranno a questa variante del blues tradizionale un’impronta molto più orchestrale e dedita alla costruzione di melodie che talvolta incrociano inesorabilmente rock & roll e jazz.
Charles Brown partecipò a quella rivoluzione, passatemi il termine, e con lui vi era, tra i tanti, anche T-Bone Walker. A Walker si ispirerà tantissimo il chitarrista solista di Brown, Danny Caron. Oggi la gran parte degli appassionati di blues, tranne i veri maniaci, che magari hanno il tempo e la voglia di spizzicare da riviste di settore, o come il sottoscritto dalla Blues Collection, che gli ha dedicato il disco 71 intitolato Driftin Blues, dalla sua hit più famosa, gli appassionati dicevo, probabilmente ignorano il nome di Charles Brown.
Magari qualcuno leggerà questo post un giorno, come una bottiglia che galleggia nel mare e contiene un messaggio, e si appassionerà a Charles Brown. Perché poi non è mai stato inserito pienamente nel novero di quegli artisti blues che hanno segnato l’epoca del genere nero per eccellenza, forse un motivo c’è, ed è legato ai luoghi e alla sua storia. Charles Brown è morto nel 1999, quindi neanche tanto di recente. Ora, cercando notizie su di lui non mi aspettavo certo di trovare le date di un suo tour, però neanche immaginavo di imbattermi in colorite news da oltreoceano, la maggior parte relative a Charlie Brown, quello dei Peanuts, che ora è un fumetto che ha superato i 61 anni, oppure tutta una serie di fatti relativi a un omonimo cornerback dei New Orleans Saints, o al governatore di chissà che stato degli Usa.Del bravo pianista e vocalist nero poco più che due citazioni, due epigrafi però, che se trattare con cura e acutamente decifrate, ci aiutano a comprendere che la bottiglia con dentro il suo messaggio è ancora in piena marea e non affonderà facilmente, che qualcosa ancora si muove di là del mare, che Charles Brown un’eredità, un’impronta, le ha lasciate e sopravvive negli autori di oggi.
Ne ho trovati due agli antipodi, il primo un insegnante di blues sconosciuto, il secondo invece, uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi. Sono testimonianze importanti, la prima è un racconto di Michael “Hawkeye” Herman, un uomo di blues, che circa 30 anni fa aprì una sua scuola di blues a San Francisco, in cui ancora insegna.
Leggiamola: «A 12 anni avevo messo da parte circa 17 dollari, abbastanza per comprare la mia prima chitarra. Dopo il college, mi sono trasferito nella Bay Area di San Francisco. Ho avuto la fortuna di poter imparare molto dalle icone del blues che si esibivano allora in quella zona: T-Bone Walker, Charles Brown, Cool Papa Sadler e altri. Il mio primo vero concerto blues è stata un’apertura a John Lee Hooker nel 1970 al St. Mary’s College».
Questo è microblues, si tratta del pensiero di chi il blues lo ha vissuto in prima persona, ne ha respirato l’odore, ne ha toccato il sudore. Qui Brown è addirittura citato tra le icone del blues locale in California, tra cui, come detto, spicca il nome di T-Bone. Lontano anni luce da chi invece descrive oggi un episodio di un concerto tenuto da Eric Clapton qualche settimana fa al Valley View Casino Center di San Diego: «Alcune delle sue esecuzioni più impressionanti sono avvenute nei momenti più morbidi e sottovalutati del concerto, soprattutto attraverso il suo agile finger-picking nel corso di una superba versione acustica di Drifting Blues di Charles Brown».
Siamo sempre in California, ma l’autore dell’articolo apparso sul Sign On San Diego, inserisce il tributo di Slow Hand a Charles Brown tra i momenti «più morbidi», ma soprattutto «sottovalutati del concerto», riconsegnando Brown al luogo che più gli compete, un grandissimo artista locale, di Stato, vincolato al ricordo di uno, due luoghi al massimo, tra il Golden Gate Bridge e Hollywood. Riuscire a possederlo, per noi, oggi, ha un valore massimale e non va sottovalutato, anzi, va goduto.