Sparklehorse era Mark Linkous, come, qualcuno ha notato, i Nin possono essere considerati Trent Reznor e, aggiungo io, i Porcupine Tree sono stati, per lungo tempo, Steven Wilson. Linkous creava i suoi lavori da solo, dentro la sua casa, segno di un destino già malinconicamente segnato, e la solitudine, quella meravigliosa e sconvolgente creatura che impaurisce molto più di quanto lascia mirare i suoi pregi e si sa far corteggiare, era la conseguenza, non la causa, del suo astrarsi dal mondo, fino a far uso di droghe e, soluzione ultima ad alleviare le sue difficoltà di comunicazione con l’ecosistema circostante, il suicidio. Nella tomba si porta il suo stesso progetto, con lui muore anche Sparklehorse.
Linkous aveva rischiato di morire già 14 anni fa, quando in circostanze ancora non molto chiare fu trovato nella sua stanza d’albergo dopo uno show, agonizzante, prono sulle gambe, vittima di un terribile mix di eroina, antidepressivi e alcol. Salvo per miracolo, forse anche contro la sua stessa, intima volontà di farla veramente finita.
Ma il 6 marzo 2010 fine dei giochi. Non è bastato per l’artista statunitense il ritorno sul palco dopo quel fatto, dopo tanto tempo passato nella sua casa, lontano dal mondo, senza radio, né tv e internet: lui e lui soltanto, e la sua musica. Una vibrante, scheletrica miscela di country, musica sperimentale, hard rock, Tom Waits (con cui ha anche collaborato), vocoder, e strumenti tipici della musica “alta” (come il mellotron). Testi scevri, rombanti di vuoto, tristezza e grigi più delle note angolate sulle corde della sua chitarra distortissima. Dalle sue canzoni traspare una cultura, soprattutto in riferimento al cinema, una delle sue valvole di ispirazione (Sad and Beautiful World, per esempio, è la frase di Walt Whitman pronunciata da Benigni a Tom Waits nel film Down by Law).
Non gli è valso neppure continuare a produrre musica, compreso il progetto con dj Dangermouse che inizialmente doveva chiamarsi Dangerhorse ma poi divenne Dark Night of the Soul. Quell’album uscì dopo la sua morte, il 6 marzo 2010, trovato suicida in casa all’età di 48 anni. Ne dimostrava molti meno, decisamente. Chi aveva potuto ammirare le sue performance dal vivo lo ricorda come un astro avulso dal resto della folla, quasi nervosamente immerso in un luogo, il palcoscenico, che quasi rifiutava per la paura di irritare la gente, o semplicemente perché, come scrisse anche Chiara Meattelli su Buscadero, in occasione di uno dei suoi ultimi tour inglesi nel 2006, «Linkous vuole rimanere un artista misterioso come la sua storia». Venendo a noi, ho ascoltato, poco, ma credo che questo sia un artista da approfondire, nonostante la sua morte, che nell’arte conferisce comunque all’insieme un’aurea di fatale mitologia. Peccato non averlo potuto conoscere da vivo, e dal vivo. Un’altra occasione mancata delle tante, scopri qualcuno quando già non c’è più, e la cosa inizia ad infastidirmi. È talmente vasto e variegato il mondo della musica che tuttavia lo si può comprendere solo a patto di cadere in questi piccoli tranelli della storia umana. Fortuna restano tanti dischi, io per esempio ho già “prenotato” Dreamt for Light Years in the Belly of a Mountain. Se qualcuno lo conosce prego farsi avanti.