26 giugno 2015 – Si va via dall’Austria, e a molti nostalgici è venuto in mente il giorno di gloria del nostro Vittorio Brambilla. Eppure a molti è sfuggito che quaranta anni fa, in Austria anche se si correva ad agosto, perse la vita uno dei migliori piloti americani degli anni 70. Costui era Mark Donohue.
Aveva proprio la faccia da americano, Donohue. Quel faccione che sembra pronto e stampato per essere messo come su un depliant illustrativo della STP, Texaco, Penzoil o qualsiasi altro marchio “racing” di matrice nord-americana. Fronte alta, capello pettinato con riga nel mezzo e uno slang che t’ammazza appena lo senti. Era Mark Donohue, correva in Formula 1 e aveva vinto qualsiasi cosa nella Can-Am, ma poteva anche essere un qualunque Marine in congedo dal Vietnam, se solo quel capello ben pettinato fosse stato rasato. Non era semplicemente “un pilota”, era Il pilota americano della Formula 1. Con Roger Penske, mica un John Douglas qualsiasi, aveva messo su numeri in america che sono ancora imbattuti. Non era un semplice pilota, ma anche un ingegnere con tanto di laurea appesa al muro e una conoscenza meccanica incredibile. Ok, se cercavamo un pilota d’altri tempi per farvi salire la nostalgia a livelli ionosferonici, l’abbiamo trovato.
L’ingegnere pilota: Nato e cresciuto nel New Jersey, ma con studi nel Rhode Island, a Providence. Semplicemente Born in the Usa. Un ragazzo tanto studioso, quanto bravo al volante. Donohue comincia la sua carriera da pilota, di nascosto dai genitori, nelle corse in salita americane e qualche piccola apparizione nelle corse su pista. Arriva l’incontro con tal Walt Hansgen, pilota Ford con all’attivo due gare in Formula 1 con una Lotus, che lo vuole sia come pilota che come ingegnere. Si, perchè Donohue si è già laureato, ha lavorato alla Griffith come ingegnere specializzato nella motoristica ed è pure stato in grado di far circolare il suo nome negli ambienti delle corse che contano. Il tutto, quando deve ancora compiere trent’anni. Sarà che l’America è la terra promessa dei sogni, ma qui non può essere solo una storia di sogni che si realizzano. C’è dell’altro; e per la precisione tanto, ma tanto, manico e una propensione quasi genetica alle corse. Hansgen ha 46 anni, Donohue 28: sembrano la coppia perfetta. Uno esperto quanto basta, l’altro giovane e carico di idee. Come se non bastasse, dietro c’è pure la Ford che, su segnalazione dello stesso Hansgen, blocca Donohue come pilota e punta tanto, ma non tantissimo, su questa strana coppia.Hansgen, però, muore durante un test per la 24 ore di Le Mans del 1966 e Donohue, chiaramente colpito, non brilla particolarmente in quella Le Mans. Durante il funerale dell’amico e collega, Donohue viene avvicinato da un’uomo. E’ un ex pilota, anch’egli giovanissimo, che ha appeso il casco da un’anno. Gestisce una concessionaria Chevrolet, ma punta in alto e vuole rientrare nel mondo delle corse passando, stavolta, dalla porta che conduce al muretto dei box. Si chiama Roger Penske e non c’è bisogno di andare tanto oltre sulla sua presentazione.
Penske – Donohue la coppia di ferro: Quello che uno pensa, l’altro lo ha già messo su carta e quello che uno ha notato alla guida, l’altro ha già messo sulla scrivania i soldi per progettarlo. Così si può riassumere il forte legame che lega Penske e Donohue. Amici in primis e anche grandi uomini collegati da una viscerale passione per le corse. Ovunque vanno: vincono. 500 miglia di Indianapolis, Nascar, Can-Am, Trans-am. Riconoscimenti arrivano anche dall’Europa quando la Porsche, che stava esportando propri mezzi anche nella Can-Am, affida alla Penske Racing lo sviluppo della 917-10, appunto, per correre nella categoria principale americana. Successivamente, la Porsche passa la 917-30. La Penske e Donohue trasformano una macchina già di per sè potente in un missile terra aria: 1100Cv con picchi di 1500. Oltre ogni logica e umana concezione. “Non c’è abbastanza potenza finchè le gomme non patinano in rettilineo e tu sei già lanciato” , ripeteva Donohue a chi gli chiedeva se non si andava forse troppo in la con lo sviluppo. Il tutto esclamato con un sorriso beffardo di chi sa che, in fondo, che vita è senza poter portare a limite tutto ciò di cui si ha a disposizione? La 917-30 diventa talmente vincente da essere soprannominata “The Can Am Killer”, perchè vince tutte le gare del campionato 1973, lasciando gli avversari con un pugno di niente in mano.
L’approdo in Formula 1: Dopo un tanto trionfante 1973, Donohue comincia a pensare al ritiro. Chiudere una carriera vincente con una ultima stagione di trionfi, sarebbe il massimo. Inoltre, spinge per il suo ritiro la famiglia e anche i fatti delle 500 miglia di Indiapolis del 1973, dove ha perso la vita l’amico “Swede” Savage. Il ritiro viene annunciato, e archiviato, con Donohue che passa un 1974 in relativa tranquillità. Poi la chiamata, ancora, dell’amico Penske. Ci sono i fondi per un debutto in Formula 1, categoria regina che a Donohue è rimasta sul groppone dopo una sola gara nel 1971 a bordo di una Mclaren nel Gp degli Usa. Troppo forte la tentazione, e così Donohue torna a correre, in Fomula 1, le ultime gare della stagione ’74 e getta le basi per il 1975. Stipula un nuovo contratto con Penske nella quale si impegna a correre tutto il 1975. In quella stagione debutta la PC1, la prima vetture Penske per la F1. Il progetto è tutt’altro che arcano: telaio tubolare in alluminio, sospensioni progressive e un’aereodinamica studiata; sono i suoi punti di forza. Peccato che gli inconvenienti tecnici sono tanti, e dopo metà stagione la Penske mette a riposo la Pc1, per passare ad una March 751, permettendo a Donohue di chiudere la stagione e di lavorare con calma allo sviluppo della sua erede. Arriveranno comunque 4 punti: due in Svezia e due a Silverstone.
Il record e quella sensazione rimandata indietro: E’ 9 agosto del 1975 quando Donohue sale, per l’ultima volta, sulla sua Porsche 917-30. Lo fa a Talladega, dove ottiene il record di velocità su pista: 221 miglia orarie (356 Km\h). Un record che resterà inavvicinabile per anni, fino a quando Ricky Mears lo frantumerà a Indianapolis. Ok, il nome di Donohue ora è tatuato per sempre nella storia delle corse; si può davvero dire basta. Il fato aveva mandato un messaggio, chiaro, poche settimane prima quando al Nurburgring una serie impressionante di forature causò una sfilza di ritiri, tra cui proprio quello di Donohue. E invece no. Troppo forte il legame tra Donohue e Penske. Il contratto parla di un legame tra i due fino a fine stagione e Donohue decide di onorarlo, anche se Penske non avrebbe avuto problemi a rescinderlo. Questione di rispetto. Donohue sale sull’aereo che lo porta a Zeltweg e partecipa regolarmente al Gran Premio d’Austria. Si qualifica e si appresta a disputare regolarmente il Gran Premio. Durante il warm up, però, succede l’irreparabile. Sulla sua March scoppia lo pneumatico posteriore sinistro mentre affronta la curva Voest-Hugel. La vettura si schianta contro il rail, lo sorvola, uccide una guardia e un segnalatore poi termina la sua corsa contro una cartellone pubblicitario. Donohue è cosciente e viene soccorso da Stuck e Fittipaldi ma ha il casco rotto nella parte superiore, probabile conseguenza di un violento urto contro un paletto della rete contenitiva o di un palo in ferro che reggeva il cartellone. Trasportato immediatamente in ospedale, gli verrà riscontrata un’emorragia celebrare; i medici decidono di intervenire la sera stessa. Il giorno dopo, Donohue sembra ristabilito e il decorso procede regolarmente; ma una nuova emorragia fa cadere Donohue in un coma dal quale non si risveglierà mai più. Muore all’ospedale di Graz il 19 agosto 1975. Il giorno dopo, tutti gli USA piangono il loro mito. Un anno esatto dopo, John Watson vincerà la sua prima gara in carriera e la prima, ed unica, vittoria per la Penske. Sempre in Austria, e con una vettura sulla quale Donohue aveva appena iniziato lo sviluppo prima di morire.
Il ricordo di Mark Donohue è forte in chiunque abbia seguito le corse d’oltreoceano. Quel pilota, così americano e così vincente, che se n’è andato in un Gran Premio che ancora oggi è ricordato per la grande impresa di Vittorio Brambilla. 34 anni dopo, a Daytona, David Donohue , figlio di Mark, vince la 24 ore di Daytona; creando un’ondata commemorativa per il padre che da quelle parti non si vedeva dai tempi di Dale Earnhardt Jr.
F1 Storia : “Capitan Nice” Mark DonohueF1Sport.it - F1 Formula 1 F1 Tecnica F1 News Team Analisi