Il ministro degli esteri turco, Ahmet Davutoğlu, ha compiuto giovedì scorso un’importante visita a Parigi: ha sì partecipato al vertice sulla Siria, ma l’obiettivo politicamente e mediaticamente più importante era l’incontro col capo della diplomazia francese, il socialista Laurent Fabius. La crisi innescata dalla legge sulla negazione del genocidio armeno voluta da Sarkozy, poi cancellata dal Consiglio costituzionale francese, è sembrata per un paio di giorni superata: Davutoğlu ha annunciato la revoca delle ritorsioni economiche, Fabius ha fatto capire che non c’era lo spazio per ripresentare un provvedimento simile (in più, Hollande aveva già manifestato la disponibilità a rivedere il veto posto su 5 capitoli negoziali nelle trattative di adesione di Ankara all’Ue). Poi, la doccia fredda: una conversazione tra il presidente francese e i rappresentanti della comunità armena di Francia, comunicata alla stampa, per rassicurarli sulla ripresentazione di un provvedimento specifico e dal contenuto analogo (ad eccezione degli elementi che ne hanno provocato la decadenza per incostituzionalità). Ma che giudizio si può avere se non pesantemente negativo di una politica che – anche per decisioni di estrema rilevanza – si fa tenere ostaggio da minoranze e diaspore che continuano a strumentalizzare gli eventi tragici del passato?
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